Museo dei Bozzetti "Pierluigi Gherardi" - Città di Pietrasanta

 
 
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I volti della solitudine

Virio Bresciani


Opere di pittura

inaugurazione: 2 aprile 2010 - h 18.00

esposizione: dal 2 aprile al 13 giugno 2010

luogo: Sale del Chiostro di S. Agostino - Pietrasanta 

orario: 16.00-19.00; lunedi chiuso

ingresso libero


Comunicato stampa

 (versione in pdf)

 

A dieci anni dalla scomparsa del grande artista Virio Bresciani, l'Assessorato alla Cultura presenta nelle sale del Chiostro di Sant'Agostino, dal 2 aprile al 13 giugno 2010, "I volti della solitudine", un'ampia retrospettiva che ripercorre la vicenda umana ed artistica del pittore versiliese, dagli anni Quaranta al 2000. Un'iniziativa promossa in collaborazione con il Comitato Amici di Virio Bresciani.

 

Al centro della poetica di Bresciani c'è il tema della solitudine. Una solitudine intensa, frutto del rifiuto di qualsivoglia compromesso e della volontà di scavare oltre l'apparenza, laddove solo nei profondi silenzi dell'anima si scopre la verità più nascosta. Una vena di pacata tristezza pervade le opere di questo artista pietrasantese che, nel suo racconto pittorico, ci parla dell'uomo, cercando sempre inedite chiavi di lettura, andando oltre le correnti o le mode effimere, indagando a fondo. Il suo è un uomo vittima di convenzioni e consumismi, di illusioni edonistiche, un uomo la cui difficile esistenza si riflette in un paesaggio desolato, illuminato da una luce fredda e penetrante. Attraverso le sue tele, siano scorci cittadini, siano vedute marine, Bresciani esprime tutta l'incomunicabilità dei tempi moderni.

"Virio Bresciani è stato infatti tutto questo - scrive nel catalogo il critico Ilaria Cipriani - un uomo sensibile, complesso, combattuto, sofferente, incapace di rinunciare alla sua missione maledetta, al richiamo violento e irresistibile di pennelli e matite, padroneggiati con indiscussa maestria". E le sue opere hanno un indiscusso fascino proprio per la loro capacità di creare quando sembrano distruggere, di far riflettere pur fissando un vuoto apparente. Opere che la stessa Cipriani definisce una "solitudine affollata di significati", "un silenzio che urla sottovoce".

In mostra oltre quaranta tele e numerosi disegni che tracciano il percorso artistico di Virio Bresciani sin dagli anni Quaranta. Una ricca vetrina che vede la collaborazione del Comitato Amici di Virio Bresciani di cui fanno parte Francesco Cipriani, Ilaria Cipriani, Giuseppe Cordoni, Daniele Lazzerini, Enio Mancini, Elio Serra.

 

Catalogo a cura di Ilaria Cipriani e Giuseppe Cordoni.

 

Mostra: I volti della solitudine
Artista: Virio Bresciani
Date esposizione: 2 aprile - 13 giugno 2010
Luogo: Pietrasanta, Chiostro di Sant'Agostino
Orario: 16.00/19.00, chiuso il lunedì
Inaugurazione: venerdì 2 aprile, ore 18.00

Ingresso libero

 

Alessia Lupoli Ufficio Stampa
Assessorato alla Cultura
tel. 0584/795381; fax 0584/795588
e-mail: cultura@comune.pietrasanta.lu.it
www.comune.pietrasanta.lu.it

Presentazione

L'anima senza orizzonti

Quanti pittori del Novecento vengono in mente guardando le opere di Virio Bresciani? Forse fondamentalmente due, Vincent Van Gogh e Francis Bacon, ma anche tutto un panorama nel mezzo, con qualche sguardo anche al passato, soprattutto ad un certo Goya pre-espressionista. Di base una pittura infinita, in cui l'anima ferita possa spaziare e sedimentarsi, soprattutto in questi paesaggi brulli e solitari, dall'orizzonte spezzato solo dalla dimensione della tela, dove compaiono spesso resti di una sconsiderata presenza umana. Ciò che sorprende è rivedere quasi gli stessi paesaggi stesi con una tecnica simile anche nelle opere più recenti di Anselm Kiefer: uno stile intenso che continua e perdura nell'inquietudine drammatica di una dimensione solitaria profonda.
Ma ciò che resta più impresso del linguaggio di questo mai dimenticato artista pietrasantese sono i rami spogli e scheletrici di alberi articolati che si tendono con un senso di disperazione verso il cielo alto e lontano, quasi fossero mani vuote protese di tristi mendicanti, che più che un tozzo di pane, chiedono attenzione per essere ascoltati nella loro solitudine. Come vuoti sono i cappotti ed i vestiti appesi, i letti grandi appena sgualciti, gli spaventapasseri e manichini senza testa: testimonianze di presenze scomparse, abitate solo da sconforto e progetti mai realizzati. E così le sue ultime figure, che vuote, dagli occhi fissi, ricordano fantasmi che vagano portandosi dietro un corpo leggero, senz'anima, perché già spirata nel momento di passione più intensa.
Un dovuto omaggio a dieci anni dalla morte, questa mostra ad un grandissimo artista nato a Pietrasanta, ma figlio più che della Versilia, dell'Arte, con tutti i suoi sconvolgimenti e ritorsioni, con tutte le sue insensatezze e vorticose profondità, con tutte le sue accettazioni e repulsioni, in un mondo purtroppo sempre più moderno e poco attento all'intima e pericolosa intensità di un pennello così vero e diretto. Un sincero ringraziamento va alla famiglia Cipriani, al Comitato Amici di Virio Bresciani e a tutti quelli che hanno reso possibile quest'emozionante esposizione con opere già di casa nel Chiostro di Sant'Agostino.

Pietrasanta, aprile 2010

L'Assessorato alla Cultura

 

Critica

Solitudini

La figura di un uomo procede lentamente su un tratto di spiaggia invernale privo di presenze animate, deserto come un museo dopo l'ora di chiusura. Cartacce e rifiuti gettati qua e là sulla sabbia ingrigita dal freddo disegnano un mosaico grottesco sopra la distesa polverosa. I fogli ingialliti di un vecchio giornale tremante nel vento regalano al vuoto dell'aria salmastra notizie sbiadite. Un bicchiere miseramente insabbiato, quasi un minuscolo uccello dalle piume di vetro, incapace di riprendere il volo, guarda di traverso il piatto e il fiaschetto rotolati lontano. E l'uomo avanza circospetto fra scatole, carte e bottiglie. Ovunque, in mezzo ai rifiuti, legnetti biascicati dall'acqua, come dita nodose e braccia contorte aggrovigliate in protesta contro quell'invasione indecente. Intanto il mare russa nella burrasca e la schiuma delle onde è il lembo stropicciato di lenzuola in sussulto sul pancione di quell'anziano gigante acquoso. Con le mani affondate nel cappotto i cui lembi sbattono alla tramontana, l'uomo è la solitudine che ciondola indolente su consunti mocassini di pelle.
Solo movimenti al rallentatore in quel corpo attempato: una mano stringe con calma il bavero sul collo infreddolito e i piedi si staccano a stento dalla sabbia bagnata. Il viso, però, è un ammasso di cellule sprizzanti energia, la testa di un bambino curioso avvitata sul corpo di un vecchio. Quasi teatrale nei lineamenti marcati, quel volto è dominato da un naso importante. Lo chiude un mento così accentuato da forzare i contorni della fisionomia. E' un insieme di tratti irripetibile e singolare. I corti capelli scompigliati si arruffano in un cespuglio brizzolato sulla fronte in continuo e febbrile movimento, percorsa da un intrico di corrugamenti pulsanti che appaiono e si dileguano con la rapidità d'un brivido, riflettendo in superficie il ribollire di una mente vorace. Sotto gli stimoli più diversi della realtà circostante, le sinapsi di quella corteccia cerebrale si attivano instancabili, come i muscoli di un cavallo spronato senza pietà. Gli occhi scuri, profondi, implacabilmente cerchiati, s'infossano in maniera innaturale. Spinti troppo all'interno del cranio, hanno scelto quella posizione arretrata per nascondere meglio i propri segreti e osservare il mondo da dietro le quinte: una distanza di sicurezza per assistere alla grande recita della vita. Non sfugge neppure una scena a quelle pupille vivaci, a quei laghi senza fondo che inghiottono le sassate dell'esistenza sputandone poi sulla tela i frammenti rimasti dopo un'intima e sofferta digestione. Una digestione davvero faticosa, anche a livello fisico. Nevrosi. Nevrosi somatizzate in spaventose gastriti. Malesseri da artista eccentrico e difficile, da pittore anticonformista, da voce che grida fuori dal coro un a solo abbaiato.
Virio Bresciani è stato infatti tutto questo. Un uomo sensibile, complesso, combattuto, sofferente, incapace di rinunciare alla sua missione maledetta, al richiamo violento e irresistibile di pennelli e matite, padroneggiati con indiscussa maestria.
Qualche passo e Virio si ferma bruscamente. Accasciato a terra, sembra in preda a un malore, una fitta improvvisa. Invece dalla tasca del cappotto esce la mano destra con un vecchio quaderno. Pochi secondi e la penna di Virio scrive decisa: "Dicono quelli che presumono di conoscerti: - Tu fai quello che ti pare, sei solo (come un cane!), fai un bel mestiere (il mestiere del genio!), non devi rendere conto a nessuno..- e via discorrendo. E tu zitto: che gli rispondi? Son certo che non ci si cambierebbero con me!". La pagina si chiude sopra un sospiro inghiottito dal mare, che regala una goccia salata alla guancia rugosa dell'uomo avviato verso casa.
In realtà, da quando è morta sua madre, non l'attende nessuno.
La porta dell'abitazione di Virio si apre cigolando sui cardini il saluto bisbigliato da un amico frettoloso. Le narici dell'uomo respirano subito l'odore familiare di solvente, colori ad olio e trementina, che impregna l'aria della stanza come l'aroma di fritto nella cucina di una piccola pensione. Virio lo inala fino in fondo, quasi fosse il profumo sempre uguale dell'abbraccio di una persona cara, di una donna desiderata e mai realmente avuta.
In realtà non l'attende nessuno nella grande stanza deserta.
Ampio ed arioso, illuminato da due grandi finestre, il locale è quasi privo d'arredamento, con la zona centrale praticamente vuota. Vi troneggia solo una grande sedia a dondolo, in legno scuro, con un morbido cuscino a scacchi sulle tonalità del rosso che ricorda una grossa coccarda dimenticata proprio in quel punto. Alla spalliera è appesa una giacca beige di velluto a coste e nel giro di un istante rotolano ai piedi della poltrona i mocassini insabbiati che Virio ha lanciato sfilandosi contemporaneamente il cappotto. Non appena quel tessuto lanoso si allunga sul dondolo, sembra che il corpo stesso dell'uomo si materializzi sotto gli indumenti, intento a cullare inquietudini e riflessioni senza fine. Invece Virio non è seduto in poltrona, ma si muove nervoso avanti e indietro, incerto sul da farsi. Con le dita vibranti su un'immaginaria tastiera, sfiora leggermente i contorni della stanza: le pareti prendono vita sul vuoto centrale come gli spalti di un anfiteatro già in fermento per l'arrivo dei gladiatori. Tappezzati da armadi delle più varie dimensioni, i muri occhieggiano tra raccoglitori di tele, libri polverosi e piccoli tavoli soffocati da spatole, pennelli e colori. Ovunque scrivanie incrostate da schegge cromatiche. Le ante degli armadi si sono col tempo trasformate in veri graffiti, ricoperte da scritte che urlano in smorfie sofferte nei loro tratti sbilenchi. "Nasce dal dolore la gioia di dipingere", ricorda a Virio l'angolo di destra, mentre lo sportello centrale ammonisce: "Tutto può andarsene tranne la tua volontà". Sul lato opposto un filo di vernice rossa esalta sanguinando il "nobile sentimento della solitudine", ma un piccolo scomparto a sinistra non si stanca di gridare: "Fiducia!" e "Mai perdere la testa!".
-Già.. - sussurra Virio cogliendo il suggerimento anche quel giorno. - Sempre tutto sotto controllo, con il dominio della mente!- E un istante dopo è in camera sua. Poggiando la testa e gli avambracci sul tappeto, tiene il resto del corpo in precario equilibrio. Il grigio maglione di lana si affloscia in mille pieghe verso il suo mento. Coi pantaloni ripiegati sulle ginocchia, l'uomo ruota i piedi nei calzettoni al ritmo lento e pacato di un "Aum!" gutturale. Un ragno che cala giocando da acrobata sul filo invisibile? Una marionetta fatta scendere a testa in giù da un burattinaio disattento? No... Solo un uomo che, chiudendo gli occhi sul mondo, li scherma con le lenti protettive della disciplina yoga. Il sole della vita serena e affollata risulta troppo abbagliante per le pupille di chi è ormai abituato alla solitaria penombra. Ma forse non è sempre stato così.
Anzi, di sicuro non è sempre stato così, anche se proprio in questa maniera e partendo dall'osservazione del quadro "Domenica sul mare" (1965, olio su tela) mi piace immaginare ricordando Virio Bresciani, un grande artista per me adulta, uno strano amico di famiglia per me bambina, capace di incutermi una fascinosa soggezione.
Infatti senza dubbio Virino ha vissuto pienamente, ha socializzato, ha interagito con gli ambienti e le persone che lo circondavano nella normale quotidianità. Basta ad esempio concedere uno sguardo alle opere giovanili, dedicate alla sua Pietrasanta, per scoprirlo parte integrante del proprio luogo d'origine, di quell'amata-odiata provincia che gli ha marchiato a fuoco il cuore e che lui ha osservato e dipinto con sofferta amorevole attenzione. Pur restando ben lontano dal riconoscersi una ungarettiana "docile fibra dell'universo", però, questo originale artista ha intessuto l'esistenza di rapporti sociali contorti e difficili, tra un incontro sempre in bilico sul filo dello scontro e un legame più o meno duraturo. Le difficoltà relazionali, aggravatesi con l'avanzare del tempo, saranno probabilmente diventate preponderanti soltanto nell'ultimo periodo, permettendo infine alla solitudine di impossessarsi davvero della sua vita come il perenne gelo inesorabile chiamato a ibernare il giardino de "Il gigante egoista" di Oscar Wilde.
Ma tutto questo io posso capirlo adesso, da adulta.
Per me bambina quell'insolito personaggio era esclusivamente un uomo solo, nel senso più assoluto del termine.
Era il maestro che regalava a mio padre, suo amico di sempre, telefonate patologicamente lunghe. Era la persona che cenava spesso a casa nostra lanciandosi ogni volta in disquisizioni infinite, lente e inarrestabili come lo scorrere di un fiume, che si bloccava raramente sull'ostacolo di un botta e risposta e spostava in fretta i detriti di uno scambio d'opinione per tornare al più presto a fluire in un monologo indisturbato. Era l'uomo che in parecchie circostanze avevo trovato a parlare con i suoi gatti, ascoltatori silenti di pensieri espressi sempre a voce alta, con quelle acute tonalità leggermente gracchianti così difficili da dimenticare per chiunque le abbia ascoltate.
Era, insomma, un essere umano abituato a stare da solo e quindi a discorrere con sé, fra sé, per sé.
Eppure non mi sono mai sentita triste pensando a lui, in nessun momento ho provato la minima compassione, perché ai miei occhi di bimba Virio, quell'alchimista scorbutico capace di realizzare vere magie coi colori, non poteva che essere così, semplicemente.
E anche adesso, da grande, ammettendo senza ombra di dubbio l'assoluta parzialità e incompletezza della mia visione infantile, posso affermare di non aver colto tanto lontano dal segno. Perché se naturalmente è vero che l'universo di Virio Bresciani comprende pure molto altro, la solitudine di sicuro ne rappresenta la cifra fondamentale, quasi il pianeta più importante attorno al quale hanno gravitato tutti i satelliti della sua ricchissima personalità, in orbite costrette a cambiare traiettoria a seconda dell'azione attrattiva o repulsiva esercitata dal nucleo centrale. E il titolo scelto per la mostra personale retrospettiva organizzata a Pietrasanta in occasione del decimo anniversario della scomparsa dell'artista ("I volti della solitudine") lo conferma.
Sfogliando le pagine del relativo catalogo, infatti, sembra di trovarsi in una fantasmagorica galleria degli specchi, in cui le immagini si riflettono non come inutili e monotoni cloni, bensì deformate, diverse, sempre nuove ma uguali nel loro sottobosco emotivo.
E così il vento pungente della solitudine graffia gli alberi spogli e contorti ammalati dall'uomo moderno, i cui rami nodosi sembrano ossute spine dorsali ricurve e piegate in eccessi di tosse inquinata.
L'alito caldo della solitudine essicca i mazzi di fiori schiacciati sulla tela come fra le pagine di un vecchio diario tanto che il dito dell'osservatore, sfiorandoli, sente quasi di profanare una tomba solitaria e teme di comprometterne la precaria sopravvivenza imbalsamata.
Di nuovo il soffio invisibile della solitudine alita poi nei cappotti appesi, contenitori a prima vista senza contenuto, gusci vuoti sul corpo di chi non c'è più oppure c'è come non mai proprio perché non c'è mai stato.
Ed è ancora l'assenza ingombrante della solitudine a occupare i letti deserti le cui lenzuola, spiegazzate in linee a tratti indurite, paiono talvolta inumidirsi di pianto nei panneggi più morbidi, in silenziosa empatia con l'anima tormentata del pittore.
Ma non è forse la stessa solitudine a ingrigire le ampie strade asfaltate del periodo milanese, quei nastri dritti, affilati, sporchi d'asfalto e di smog, che si sbriciolano su uno sfondo confuso impolverando il cielo illividito?
Si tratta di un sentimento tanto dominante sulle tele di Virio Bresciani che diventa possibile coglierne i tratti del volto celato e mutevole anche in quadri d'insieme, occupati da gruppi più o meno numerosi. I vari individui dipinti sono infatti monadi isolate, esseri chiusi in sarcofagi trasparenti, i cui sguardi, spesso tra l'altro assenti, non riescono a incrociarsi oltre le invisibili barriere dell'incomunicabilità. Come goccioline d'olio fatte scivolare in un bicchiere d'acqua, le figure stanno accanto, vicine, talvolta persino a contatto, spalla a spalla, ma... Ad un tratto qualcuno si volta all'improvviso, le angolazioni si fanno spezzate e spigolose, i punti di vista si intersecano interrompendosi a singhiozzo, appaiono schiene piuttosto che facce o i contorni vengono ritagliati più nettamente, a separare del tutto. E in quel preciso istante, allora, un'autentica fusione diventa davvero irrealizzabile: ogni singola goccia, in fondo, resta a galleggiare da sola sul lago insidioso della vita.
Il viso della solitudine appare insomma dovunque, come quello temutissimo della morte intravisto fra la gente dal terrorizzato protagonista di "Samarcanda", la splendida canzone di Roberto Vecchioni. E alla stessa maniera, naturalmente, ogni fuga risulta alla fine illusoria, vana, inefficace, perché non si scappa al proprio destino né correndo veloci sopra un agile destriero né volando su un pennello trasformato in scopa fatata. L'incantesimo liberatorio, in pratica, non funziona, e l'artista si ritrova fra le mani una semplice granata di saggina, con la quale spazzar via, in rabbiosi gesti di protesta, le sporcizie spirituali e materiali del mondo contemporaneo o sferzare l'aria a caccia dei fantasmi più odiati.
Tuttavia questi ritornano, implacabili, e prendono forma in una sorta di angosciante e visionaria allucinazione nel memorabile quadro intitolato "Manichino nella discarica" (1983, olio su tela). Sopra un mare di rifiuti, tratteggiato sulle sfumature di un particolarissimo blu-acciaio, con pennellate affilate come pezzi di latta abbandonati, avanza una figura scura, inquietante, un manichino decapitato. Solo in mezzo agli avanzi triturati e sputati in fretta dalla furia divoratrice della società dei consumi, affonda i piedi nell'immondizia e procede a fatica o forse addirittura si ferma, come una bottiglia vuota, senza tappo, mescolata agli altri oggetti buttati. Un rifiuto tra i rifiuti, vittima di un'impietosa metamorfosi degradante. Ma quel viso scomparso, quella testa brutalmente cancellata, quella mancanza così evidente è in assoluto la presenza più forte all'interno del quadro, la summa per eccellenza, l'accavallarsi impietoso di tutti i volti della solitudine ammucchiati in un nulla che nasconde il tutto più completo.
Perché proprio questo è il segreto del fascino della pittura di Virio Bresciani: la capacità di creare quando sembra distruggere, di parlare anche nell'assenza di suoni della tela, di far riflettere pure fissando un vuoto apparente. Quindi... E' sufficiente fermarsi un attimo... Osservare le opere con gli occhi dell'anima... Ascoltarle con le orecchie del cuore... E si avverte... Si percepisce... Senz'altro... Una solitudine affollata di significati, un vuoto traboccante sottintesi, un silenzio che urla sottovoce... Per sempre.

Ilaria Cipriani

 

Biografia

Cenni biografici
Virio Bresciani nasce a Pietrasanta il 28 agosto 1925. Suo padre Domenico è artigiano scultore, capo studio presso la ditta Ferdinando Palla di Pietrasanta. La madre Ilda Garbati è sorella di Renato Garbati, valente pittore versiliese post impressionista. Dopo le scuole elementari frequenta la gloriosa Accademia di Pietrasanta, poi Istituto d'Arte, sotto la guida di prestigiosi maestri come Leone Tommasi e Augusto Boggiano. Il clima artistico di Pietrasanta con i secolari laboratori di scultura in marmo, le fonderie d'arte, le botteghe di mosaico, imprime alla sua giovanile formazione un senso di rigore verso l'opera ben fatta, educandolo al primato assoluto del disegno. S'iscrive all'Accademia di Belle Arti di Firenze dove si diploma con lode nel 1953. Per un breve periodo frequenta lo studio del pittore Pietro Annigoni, di cui ammira le straordinarie risorse tecnico espressive; incontra Primo Conte ed Ottone Rosai. Ma l'ambiente fiorentino finisce per affascinarlo ed al tempo stesso disorientarlo, temendo di cader nella tentazione di un facile manierismo accademico. Come altri giovani pittori della costa tirrenica nel 1958 si trasferisce a Milano, sentendo l'esigenza di adeguare il proprio linguaggio alle grandi mutazioni umane e sociali di una metropoli in pieno boom economico. Si avvicina, allora, sia ai motivi del Realismo esistenziale, sia a quelli della Nuova figurazione, ma rielaborandoli in uno stile personalissimo. Rientra in Versilia agli inizi degli anni ‘70. Si spegne a Pietrasanta il 29 luglio 2000.