Museo dei Bozzetti "Pierluigi Gherardi" - Città di Pietrasanta

 
 
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Il marmo e il mito/Metamorfosi di una passione

Aart Schonk


Opere di scultura e pittura

inaugurazione: 5 settembre 2009 - h 18.00

esposizione: dal 5 settembre al 18 ottobre 2009

luogo: Sala del Capitolo - Chiostro di S. Agostino - Pietrasanta

orario: 16.00-19.00;  lunedi chiuso

ingresso libero


Comunicato stampa

(versione in pdf)

 

Monumentale e ieratica è l'espressione creativa di Aart Schonk. Nella piccola come nella grande dimensione, l'artista olandese trae dalle suadenti profondità del marmo le sue arcane creature, maestose e solenni come miti. E' palpabile la passione con cui Schonk dialoga con la pietra, tra devozione e fermezza. Dopo aver conseguito nel 2008 il prestigioso Premio Internazionale "Pietrasanta e la Versilia nel mondo", attribuito ogni anno dal Circolo Culturale Fratelli Rosselli cittadino all'artista che promuove in Italia e all'estero, attraverso la propria creatività, Pietrasanta e la sua cultura dell'arte, Schonk ricambia l'omaggio con una sua mostra, dal titolo "Il mito ed il marmo - metamorfosi di una passione", dal 5 settembre al 4 ottobre, nella sala del Capitolo del Chiostro di Sant'Agostino. Venti opere del suo percorso artistico, tra passato e presente.

 

Un incontro fatale quello tra Aart Schonk ed il marmo. Per sincera attrazione e formazione legato alla figurazione, Schonk guarda al mondo mitologico per narrare una sua personale storia dell'esistenza umana. Sentimenti ed emozioni che escono fluenti dalle sue sculture, metafora dei nostri giorni. Forti e puri sono le sue immagini; l'amore, la rabbia, l'attesa, il dubbio animano ogni sua creatura, fermata in una dimensione sollevata dal tempo e dallo spazio.
Lavora il marmo senza nessun ausilio se non quello delle sue mani, della sua forza e della sua caparbietà, in un operato lungo, lento, costante. Predilige il non-finito, che sembra sorgere dalla pietra, naturalmente.

"Siamo veramente onorati di ospitare questa grande testimonianza di affetto - afferma l'assessore alla cultura Daniele Spina - da parte di uno degli artisti che maggiormente rappresenta la dimensione internazionale della cultura artistica di Pietrasanta. Cittadino versiliese tout-court, Aart Schonk fa parte della nostra grande famiglia di artisti, che con impegno e dedizione, continuano a mantenere accesa la fiamma della creazione".


Cenni biografici

Aart Schonk nasce in Olanda nel 1946. Dal 1966 al '71 studia alla Rijks Akademie di Amsterdam insieme Car Hund, Paul Gregoire, Theresia Van der Pant e Piet Esser è lì insegna negli anni 1972 -1987. Appassionato di mitologia greca, romana ed egiziana, Schonk lavora a taglio diretto. Numerose le mostre organizzate in tutta Europa e nell'area apuo-versiliese, i riconoscimenti internazionali conseguiti. Dopo essere giunto a Carrara, dal 1976 frequenta Pietrasanta dove, ancora oggi, vive e lavora.

 

Mostra: Il marmo e il mito - Metamorfosi di una passione
Artista: Aart Schonk
Date esposizione: 5 settembre - 18 ottobre 2009
Luogo: Chiostro di Sant'Agostino, Sala del Capitolo - Pietrasanta (LU)
Orario: ore 16.00-19.00; lun. chiuso
Ingresso: libero
Inaugurazione: sabato 5 settembre 2009, ore 18.00

 

Ufficio Stampa Assessorato alla Cultura
Comune di Pietrasanta
Tel. 0584-795500; fax 0584 -795588
e-mail: cultura@comune.pietrasanta.lu.it
www.comune.pietrasanta.lu.it

Presentazione

Il fascino del non-finito

Gli occhi di Aart Schonk, artista olandese che vive e lavora a Pietrasanta ormai da molti anni, hanno ammirato a lungo le opere di un suo illustre predecessore, Michelangelo. Come lui, infatti, lavora il marmo senza altri ausilii, tranne quelli delle sue mani, della sua forza e della sua caparbietà, in un operato lungo, lento, ma costante, in cui le schegge che volano via dalla subbia mentre scalpella, sono anche riuscite a ‘colorargli' i capelli, ora candidi, come il marmo.

E come il grande Maestro, predilige il non-finito, che sembra sorgere dalla pietra, naturalmente, come se vi fosse sempre stato e l'artista - anche qui in un'azione michelangiolesca - lo dovesse liberare dal suo pesante intralcio. Anche se non di smisurate dimensioni, le sculture di Aart Schonk sono imponenti nella loro presenza, che cattura anche per la dolcezza dei loro movimenti. Il marmo viene addomesticato a regola d'arte, mentre le forme emergono prorompenti e si snodano in dinoccolate posizioni o si arrestano meditabonde.

Tali atmosfere idilliache ritornano anche nella sua pittura, con un tocco fresco e leggero, come i paesaggi che rappresenta. Nel 2008, Aart Schonk, assieme a Joseph Sheppard, ha ricevuto il Premio Internazionale di Scultura "Pietrasanta e la Versilia nel Mondo", promosso dal Circolo Culturale "Fratelli Rosselli", per la sua bravura, estro e per aver divulgato, grazie alle sue opere, la fama di Pietrasanta a livello internazionale. Ormai cittadino versiliese tout-court, Aart Schonk fa parte della grande famiglia di artisti operanti a Pietrasanta, che con il loro impegno e dedizione, assieme ai valenti artigiani, continuano a mantenere accesa la fiamma della creazione artistica, e della scultura in particolare.

Pietrasanta, settembre 2009

L'Assessorato alla Cultura

Critica

Il mito e il marmo
Metamorfosi d'una passione nella scultura di Aart Skoonk

 

Se possedessi la lingua e il canto d'Orfeo,
così da incantare con i miei inni la figlia di Demetra
o il suo sposo e strapparti dall'Ade,
scenderei laggiù e non mi fermerebbero né il cane di Plutone,
né Caronte che con il suo remo guida le anime,
prima d'aver riportato la tua vita alla luce.¹

  Euripide, Alcesti


Pensavo alla vita con lei com'era prima; che un'altra volta sarebbe finita. Ciò che è stato sarà. Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo attraversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravidi il barlume del giorno. Allora dissi "Sia finita" e mi voltai. Euridice scomparve come si spegne una candela.Sentii soltanto il cigolio come d'un topo che si salva. ²

  Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò - L'inconsolabile


Dietro l'immensa chioma d'Euridice
Chissà se siamo noi a scegliere i luoghi in cui decidiamo di fermarci per sempre? Il posto in cui si finisce per vivere ed operare. O se invece non sia esso ad attrarci, perché il nostro destino vi si compia? Polo e meta d'un inconscio sentire che imprime una svolta decisiva alla nostra esistenza. Quello che qui, in Versilia, lo scultore olandese Aart Shonk ha eletto a proprio studio non potrebbe offrircene una più singolare e convincente riprova. La rimessa d'un vecchio cascinale in ciò che rimane d'una campagna stravolta. Dove proprio lì vicino, a sventrarne il silenzio, corre un nastro infuocato d'autostrada. Ma che vede sullo sfondo, frastagliato e solenne, snodarsi il profilo delle Apuane. A slanciarsi verso il cielo, ognuna con quel suo carattere scontroso di scultura addormentata, com'ebbe ad indicarla D'Annunzio, a due passi da qui, proprio lungo la foce del Motrone. Un finestrone spalancato verso di loro le incornicia e le accoglie, quasi per abbracciale. Ma ad imporsi sulle altre, a stagliarvisi immenso, è il ventaglio dirupato del Monte Altissimo. Figura degli abissi del mare ribaltati; materno e naturale grembo di pietra; cattedrale preformata per il genio degli architetti; scrigno del candore d'ogni scultura a venire. Che altro?.. E come, con uno sguardo mai appagato, Michelangelo non smise di contemplarlo?

 

Sul piazzale lì di fronte, disseminate sull'erba, compiute o appena sbozzate nel silenzio del marmo, ci vengono incontro queste mitologiche creature di Schonk. Dialogano a distanza con questa montagna-nume della scultura moderna da Michelangelo a Moore. Dalle sue stesse viscere le diresti partorite. Come se lo scultore qui altro non ne fosse che il maieuta attento e appassionato. Colui che aiuta a farle nascere e a rivelarci il senso che le attraversa. Un artista quale Schonk non lo ha mai dimenticato. Ogni sua opera si dimostra essere ben qualcos'altro da una pura e semplice affermazione del proprio egotismo creativo. Per lui, infatti, scolpire sempre ha significato porsi nell'ottica di colui che "assiste" (nel senso pieno di questo termine) ad un evento spirituale il cui significato lo sorpassa. Quante realtà, in effetti, vi concorrono! Le viscere della montagna e la notte del mito. Sterminata, la memoria collettiva e il proprio breve ricordo. La storia d'un secolo atroce e la propria vicenda personale. La dismisura tecnologica da cui siamo stravolti e una nostalgia di Bellezza che è scomparsa da ogni nostro orizzonte quotidiano. Motivi di vitale rilevanza estetica che, da oltre quarant'anni, accompagnano e assillano la ricerca plastica di Schonk in terra versiliese.


Dialogo d'ogni sua opera - dicevo - con la cava che splende in lontananza. Consustanzialità fra natura e cultura, inseparabili: fra l'essere in sé della pietra e i modi d'essere del manufatto. Guardo il possente intreccio in cui si sviluppano le sue figure d'Orfeo e Euridice, fotografate proprio qui, dinnanzi all'Altissimo (fig. pp. 18-19). Ne invadono e quasi ce ne nascondono la facciata d'imponente cattedrale. E m'accorgo - strepitosa analogia - di quale medesima concitazione plastica le accomuni. Si direbbe che le mani geologiche del mare e quelle dello scultore siano state sollecitate da un affine andamento ritmico. Pressoché parallela al crinale del monte si dispiega l'immensa capigliatura dell'amata infelice. Un comune drammatico scalpellato ne scompagina i piani. Capelli e dirupi incombono con eguali, massicci volumi. Ciò che varia è soltanto il verso delle pieghe fra cui, per un attimo, occultandosi si rivela colei che meglio incarna lo scandalo d'ogni amore sacrificato. Il simulacro d'una verità che Orfeo-Schonk, dalla sua Olanda d'acque è sceso ad inseguire sino a qui, nelle tenebre della pietra.Per riportarlo alla luce. Rincorrendovi ancora una volta quel miraggio di beltà che, con la loro violenza, gli inferi del Novecento sostengono di averci rapito per sempre.

 

Euridice inghiottita dalla notte! La dolcezza della creatura più amata, inghiottita da dal buio dell'Ade. Delirio d'un potenziale di morte che, per distruggerle, aggredisce le forme della vita come quelle dell'arte. Sottoposte ormai come sono alla stessa minaccia d'estinzione, da parte d'una yubris tecnologica ormai quasi ingovernabile. "Chi può dirci qualcosa dell'uomo nel momento in cui l'azione umana è diventata più potente dell'uomo stesso? Le morali che avevano il loro fondamento nella natura? Le sociologie edificate sulla riproduzione di un costume abbastanza collaudato dalle tradizioni? Le psicologie che ancora ci parlano di antichi dèi, per evitare all'uomo il terrore dalla potenza ormai inscritta nelle sue sole mani?"³

 

Tornando alla misura delle mani
Dopo Auschwitz e Hiroshima, senza un canto che possa riscattarlo, quanto amore è naufragato negli abissi dell'Ade? E non di certo per un inappellabile volere del fato, come la più classica interpretazione del mito ci suggeriva. Tanto meno secondo quella, così a noi più vicina, demitizzata ed esistenzialista, che ci ha insinuato Cesare Pavese. Per chissà quale prodigio varrebbe la pena sfuggire alla morte, per poi infine tornare a morire? Fattosi dunque scultore in Versilia, lo stato d'animo d'Orfeo-Schonk verso un tale scempio di bellezza sacrificata, forse assai più somiglia a quello del pio, dell'ospitale Admeto nell'Alcesti d'Euripide. Un uomo che, per amor di successo o vanità, non desidera più gloriarsi del proprio talento; né tanto meno sperare che possa essere un miracolo (il miracolo: ovvero un eccesso di potenza divina, umana, tecnologica?) a sovvertire un ordine prestabilito, affinché debba essere reintegrato nel suo bene perduto. In nome di quale merito egli può avanzar di pretenderlo? Diversamente, attraverso l'idea di privazione, l'artista sperimenta tutta l'umanità del suo limite. "Soffrendo la morte coscientemente si dissipa l'illusione, e si ritrova allora la realtà". Ciò che ne scaturisce è la chiave d'un sentimento che schiude all'apertura verso l'altro; all'esercizio d'una comune pietà altrimenti sconosciuta.

 

Ogni Euridice morsa dal serpente del secolo più violento della storia, non v'è canto che possa resuscitarla. Ciò che invece Orfeo-Schonk ha preteso dalla pietra è di potercene evocare un'immagine di vivente innocenza. Perché non sia consentito che un colpevole oblio ce ne rapisca per sempre anche il ricordo di vittima sacrificale. Nella natia Olanda, sin dai tempi della sua più matura formazione giovanile, ad Amsterdam, studente alla National Academy of Art, egli tornava a porsi il dilemma di quale fosse il ruolo delle forme dell'arte in ragione d'una memoria collettiva condivisa. E se i volti del mito classico fossero ancora in grado di darle voce e significato. Quante sono già state le sollecitazioni culturali che già l'hanno attratto? A partire dallo stesso milieu familiare nel quale ha avuto la fortuna di crescere. Artisti e musicisti erano il padre e la madre; e che dire del mitico nonno Bart Van der Leck, amico dello stesso Piet Mondrian e con il quale aveva condiviso il dibattito sul nascente De Stijl? Guardandosi attorno, nei contestatari e confusi fermenti che attraversano l'Europa del '68, artisticamente gli pare di trovarsi dinnanzi a una tabula rasa. Anche se qualcosa di vistosamente vitale s'agita attorno a lui. Come ignorare, ad esempio, lo stupendo rigore neoplatonico con cui il Plasticismo di Piet scandiva la sua metrica del Cosmo? O le inconsce e telluriche energie che si sprigionavano dall'iridescente incontinenza espressiva dei CoBrA.

 

Ancor prima che in sé stesso, l'antitesi del nero tragico dell'Ade contemporanea, Schonk il giovane, lo intuisce riposto in grembo a una Natura incontaminata. A una montagna che in se conserva un potenziale di memoria inaudita. Intuisce come sia proprio il marmo, da molti ormai considerato come un algido materiale obsoleto e già consunto da una logora tradizione, a conservare, invece, tutta la regalità della sua naturale perfezione. Quel simbolico candore assoluto in cui tentar di purificare il buio della coscienza. Quel vettore materico in grado di ripristinare un'innocente immagine del mito. Pari a quello di Euridice, il volto sofferto d'una memoria salvata. La discesa in Italia di Schonk neppure trentenne è dettata da questo rovello: la mole corrusca del Monte Altissimo gliene fornisce l'esaltante risposta che ha deciso di tutta la sua vita.

 

Infatti, ad affascinarlo, allora non v'è stato soltanto il sole del Sud. O le vestigia d'una classicità della quale avidamente s'era nutrita la sua adolescenza. O la suggestione paesistica d'una Versilia miticamente edenica: la stessa che quasi un secolo prima già aveva stregato artisti nordici così familiari al suo sentire, quali Hildebrand o Böcklin. O quell'inimitabile, abilità antica dello scolpire che ancora si perpetua negli studi di Pietrasanta. No, a spingerlo, v'era prima di tutto l'urgenza d'una scelta personale, d'una testimonianza singolarissima quanto significativa. Esser scultore alla maniera antica, dai Greci a Michelangelo: non avvalersi che della loro tecnologia, ancora a misura delle umane braccia. Da sempre dei medesimi ferri del mestiere: mazzuolo, scalpelli, raspe, subbie, gradini; ...e nient'alto. Con il ritmo che è quello d'una danza che va dal battito del cuore al respiro e all'agilità delle mani. Rifiutando tutti quegli strumenti con i quali una moderna tecnologia impunemente ci illude d'aver ribaltato i rapporti di forza fra il delirio dell'uomo e la maestà della Natura. E fra i nuovi strumenti: il martello pneumatico, quello che agli scultori e apparso come il più prodigioso. Mentre, ai suoi occhi, altro non appare che una vera e propria mitraglia: un irrefrenabile infierire di colpi sul corpo inerme della pietra. Oh, l'originaria purezza che alberga in ogni blocco di statuario! Come può con violenza profanarlo? Ogni blocco è lì, a riassumergli l'intero Cosmo. Prima che lo scultore possa dar vita al suo esaltante corpo a corpo, non v'è frammento di materia creata che non esiga da lui d'essere contemplata, compresa e rispettata. Un rapporto non dissimile da quello fra amante e amata s'instaura, allora, fra il marmo e le braccia. Deve lo scultore, innanzi tutto, strapparla alla sua geologica solitudine. Con pazienza, corteggiarla sino a udirne la voce più riposta. Assecondarne il verso, sperando di sedurla col virtuosismo delle proprie mani. Sono le stesse parole di Schonk ad asserirlo: "Tu puoi continuamente girare intorno a quel monolite; il marmo deve acquisire una certa aura e tu devi penetrare verso il suo centro". Non esiste altra scorciatoia che lo scultore possa imboccare. Affinché questa materia amata gli si abbandoni, sino a farsi carne lucente dei sogni, emozioni e miti che attraversano le nostre vite.

La fluidità del mito nella pietra
Negli oltre quarant'anni in Versilia d'una pratica del marmo così personale ed austera, non sorprenda come la maggior parte delle opere di Schonk sia ricorsa a figure mitologiche. Riuscire ad esprimere lo spirito tragico del nostro tempo passando ancora una volta attraverso le risorse immaginifiche del mito classico. Ecco la sua scommessa! Nel cuore della montagna o nei recessi della psiche umana, analoga è la notte in cui albergano il marmo e il mito. Ma, per quanto stabile ci appaia il marmo nel suo silenzio, oggi tanto più fluida, instabile e intermittente trascorre ogni nostra memoria collettiva. Spodestati del nostro passato, come sempre più spesso ci capita di vivere, non v'è archetipo racconto narrato che sappia veramente dare senso alla nostra condizione. Schonk ha intuito questo nostro stato d'intima precarietà, inseguendo nella pietra un'immagine mai interamente compiuta. Il nume, la dea, l'eroe (o l'evento a cui è legata la loro metamorfosi interiore) non assumono mai un aspetto definito nei dettagli, tanto meno descritto a tutto tondo. Le loro forme non fanno che appena emergere, balenare e rifluire all'interno d'una materia marmorea che resta dominante nella sua naturalità. Ci appaiono come figure immerse in una loro possibilità di esistere, piuttosto che già decise interamente nella loro essenza. Anche la loro stessa connotazione simbolica insegue il suo incerto compimento. Quasi c'invocano d'essere finalmente liberate dall'involucro che ancora le imprigiona. E proprio in questa loro mobilità d'immagine dimostrano uno dei loro tratti poetici più convincenti.

 

Ancora non credo sia stato degnamente messo in risalto quanto una simile capacità di sintesi iconica e narrativa rifletta il vero talento di Schonk. Anch'egli, sulla scia dei due grandi "nordici-versiliesi" già citati deve esser considerato un classico nel senso più puro e attuale della parola. Basta vedere come ogni sua opera sia retta da un principio di visione che repentinamente si presenta allo spirito. O che giunge su zampe di colomba, come avrebbe detto Nietzsche. Infatti, più un artista è sorretto da uno spirito classico della forma, meno si vede in lui lo sforzo nel comporre. Anche in Schonk v'è sempre poca composizione, un niente d'artifici descrittivi, un'assenza totale di trucchi, un' assoluta sobrietà d'elementi decorativi. Come già ho accennato a proposito d'Orfeo e Euridice, diresti che l'immagine dal marmo stia nascendo da sola. Anche se, a bene osservare, infine è sempre la nuova modalità del racconto, ovvero l'originalità con la quale il mito qui torna ad essere attualizzato, a decidere dell'impianto ritmico con cui si dispiegano i volumi, nonché della "sonorità" ultima con cui cantano le superfici.

 

Ebbene, v'è un tratto costante nell'operare di Schonk che procede con la convinzione interiore di un "ex-voto". A partire dal quel suo senso così spiccato di sacralità con cui guarda alla stessa materia scolpita. Com'è solo dinnanzi al blocco affrontato unicamente con la forza e la misura delle sue braccia! Ogni blocco in cui prevede l'impaziente sgorgare d'uno di questi suoi mitologici personaggi. Quasi lo percepisce come una sorta d'orfico, grande Uovo. Sempre l'opera a soggetto mitologico che ne scaturisce ritualizza un simbolo di rigenerazione interiore: un processo di depurazione della memoria nell'intimo vissuto collettivo. E molto spesso è proprio una forma ovoidale ad imporsi quale nucleo generativo d'ogni figura.

 

Bastano pochi esempi a confermarci una simile predilezione stilistica. Si guardi innanzi tutto alla frontale, solare struttura di Gaia: un uovo-corpo materno e immenso che prorompe dal masso inerte per darsi intero alla luce. Dove appare dominante quest'idea di forma chiusa, compatta e avvolgente. Emblema di un'imperturbabile Natura generatrice: madre inesausta eppure indifferente alla sorte di ciò che partorisce. Eloquenti vi si dispiegano quei minimi accorgimenti plastici dai quali il classico Schonk riesce a cavare un massimo d'intensità emozionale: quel suo continuo gioco fra finito e non finito, scalpellato e madre cava, rapida resa a gradino è più liscia tessitura dei volumi. Disdegnando però, sempre e comunque ogni algida, riflettente superficie. Quell'assolutamente finito che consegnerebbe, come plastificata, l'opera ad un'asetticità da museo. L'opera dovendo, invece, vivere e respirare in una sua naturale e carnale entità, ove fra materia, luce e figura sempre finisce per instaurarsi il dialogo d'una trascorrente unità e d'un pacifico, reciproco assorbimento.

 

Inscritta in un disegno ovoidale si manifesta anche la così delicata figura d'Arianna. Serrata anch'essa in una forma chiusa, dai volumi decisi e contrastanti. Arianna, l'abbandonata, lungo la spiaggia di Naxo. Gli eroi, come Teseo, per l'amore non hanno tempo: gli dei li chiamano altrove! Cade la giovinetta genuflessa dal suo improvviso sgomento. Incredulità, stupore, paura, ingannata ingenuità! Quale gamma d'opposti sentimenti s'irradia da questo suo nudo così vibrante d'umanità sopraffatta. Qui lo scultore ne porta a compiuta evidenza ogni piano, con un cosciente fraseggio di morbide superfici, affinché la piena luce non offenda queste sue tenere membra tradite. Prima che ad avvolgerla cada la notte, imprigionandola in quella tela di ragno che la consegna al suo crudele destino. Nondimeno la compatta modulazione volumetrica di Leda segue, seppur con un ritmo orizzontale, un analogo procedimento plastico. Il racconto dell'umana condizione, (il corpo essenzialmente nudo delle umane figure che lo esprimono) sempre è risolto con un dinamico tutto tondo, con dettagli narrativi assai meglio definiti. Mentre l'imperscrutabile, trascendente universo del divino, l'intervento del numinoso nelle vicende terrestri, quel nostro "pensare oltre" (über-hinaus- denken) al quale non ci è concesso di dare volto, lo scultore non può che lasciarlo nella sua viva e quasi informe carnalità della pietra. Così il cigno, in cui s'adombra la maestà del nume seduttore, corre lungo tutto il corpo di Leda a ricoprirlo, quasi usandogli una violenza intollerabile. Con il ruvido e greve contatto di questo suo collo-serpe appena scalpellato. E che dire della mortale caduta d'Icaro, il temerario? Per quanto la forma dell'orfico Uovo rimanda all'idea di perfezione d'un Cosmo ordinato e felice, ogni arbitrario superamento del limite da parte dell'uomo implica il prezzo inderogabile del cadere di nuovo in un Caos originario. Ma per avere cercato troppo il sole, ad accogliere l'Icaro di Schonk non v'è la tenebra degli abissi. Nel blocco informe in cui precipita e si confonde v'è il candore del marmo. V'è, materno persino nella morte, il grembo d'una materia sublime.

 

La fontana dei sette miti
A ben considerare, dunque, ciò che l'idea del mito nella scultura di Schonk si prefigge è tentar di sconfiggere la morte. La morte della memoria del senso dell'essere devastata come appare oggi da una collettiva, colpevole amnesia. Quella perdita di conoscenza dei modi con cui ci era stato possibile attingere e decifrare le ragioni più oscure dal pozzo profondo dell'umano agire. In un'epoca come questa, che vive sempre più esiliata in un suo stupido presente senza radici. I miti, recuperati come specchi mobili e trasparenti dei nostri Erlebnisse: ovvero dei possibili significati che sottraggono i nostri vissuti ad un assurdo destino. Mobilità e stabilità del mito attraverso i millenni. Lo spazio e il tempo coniugati nel profondo dell'anima: niente di più consustanziale al sentire di Schonk! Quando dalle dolci trine d'acqua della sua Olanda approda a questa austera visione apuana, immediatamente percepisce quale sarebbe stata anche la sorte stessa del suo stile. Un ossimoro ininterrotto fra frontale verticalità e o orizzontale fluidità: fra ascesi e silenzio della montagna e sonoro materno grembo del mare. Il femminile e il maschile: un'originaria Olanda ricevuta in dono e una Versilia, invece, strenuamente conquistata. E della stessa Versilia come ignorare il contrasto di quella sua naturale e simbolica abissalità:

" Tre disse quivi immense / parole il Mistero del Mondo / pel Mare, pel Lito, per l'Alpe, / visibile enigma
divino / che inebria di spavento / e d'estasi l'anima umana..."

 

Oh, poter dire tutto ciò nello sgorgare perenne d'una fontana! Magari da collocarsi in un luogo in cui bellezza e memoria si sposano senza contrasti. Un'opera che per genesi, complessità tematica, dimensioni e modalità esecutive (il non essersi lo scultore mai avvalso dell'uso del martello pneumatico, tanto meno dell'ausilio d'altri aiutanti scalpellini) ha finito per occupare Schonk per oltre trent'anni. Di certo, nell'ormai lontano 1975, quand'egli inizia a sbozzarne Venere e Adone, il primo dei sette gruppi di figure che la compongono, non immagina d'avere dinnanzi a sé un'impresa così lunga e complessa. Fra le più singolari e originali nel panorama della scultura del marmo, a Pietrasanta, in questi ultimi cinquant'anni. Di una cosa è, invece, pienamente consapevole: di quello che ne sarebbe stato il leitmotiv unificante. Cogliere d'ogni mito il tratto umano, quello che più umanizza anche l'agire degli dei e meglio esprime le ambivalenze della psicologia del profondo e delle nostre passioni.

 

Fedele a questo originario disegno tematico e contenutistico, a poco a poco negli anni, con perseveranza e tenacia, è così che prende corpo questa Fontana dei sette miti. Allegoria, rappresentazione, racconto di ciò che impedisce all'uomo occidentale d'oggi di darsi un senso. Itinerario iniziatico, sempre per dirla con D'Annunzio, alla presa di coscienza d'universale senso di "perdita" che ci tormenta senza che si riesca neppure a rendercene conto: "L'immensità del duolo / del lutto immedicabile / senza fine...". Mentre la risposta dello scultore la si coglie già dal magnetismo plastico che irradia da ogni singola rappresentazione. Già considerando la stessa struttura espositiva, subito balza agli occhi, questo vistosissimo contrasto fra un senso d'orizzontale liquidità e quello d'una possente verticalità. Quasi che fossero stati gli stessi schemi ideali del paesaggio Olanda/Versilia ad imporre una loro metrica decisiva. Ed ecco allora figure forze che s'innanzano, figure forze che fluiscono, figure forze che precipitano. Con sette differenti stati d'animo che si sprigionano (ancor più appropriato sarebbe dire: sgorgano o zampillano!) dalle une alle altre.

 

Ai bordi di un'immensa vasca circolare emergono (anzi, sembrano quasi galleggiarvi!) i primi tre
gruppi orizzontali. Si parte dall'abbraccio - abbandono di Venere e Adone. Sonno di corpi distesi l'uno accanto all'altro, come per lungo viaggio. Volti sprofondati nel sogno della pietra. Felicità d'una dea, eppure così terribilmente umana, in questa inconsapevole minaccia che già la persegue. Quando anch'ella dovrà sperimentare l'amaro d'un amore diviso dalla morte e mai più corrisposto. Scolpito sul basamento un minuscolo cinghiale già annuncia la tragedia che sta per scoccare. Piacere deluso per sempre perché di poco si nutre. Ben altro è l'intreccio dei corpi del gruppo che gli si contrappone e che annoda Amore e Psiche in un abbraccio eterno. Felicità che si raggiunge superando l'effimero d'ogni apparenza. Unione inscindibile, finalmente, di bellezza e virtù. Eros: forza creativa della natura; Psiche: respiro, anima, levità di farfalla. Non abbandono, ma elevazione della coscienza ad un suo più alto grado di spiritualità. Abbraccio che dunque assume uno scattante moto ascensionale di volo e reciproco attraversamento, sino allo smarrirsi dei due amanti corpo ed anima nel mistero dell'altro. Abbandono /innalzamento /caduta: ecco, allora, il ritmo con cui fluiscono i primi tre gruppi di mitologici personaggi. E se in Amore e Psiche si manifesta l'ascensione verso il grado più alto d'armoniosa fusione, il precipitar di Fetonte sprofonda invece nella più tragica solitudine. Di tutti gli eroi qui descritti l'unico ad esser solo nel suo dramma. Con una postura che acutamente Louk Tilanus, il più sensibile interprete dell'universo poetico di Schonk, individua come la più complicata di tutta la Fontana. Mentre ormai torcia umana, cade giù come un fulmine, disegnando una spasmodica linea spezzata. Al pari d'Icaro, cosa invano ha preteso d'inseguire al di là del proprio limite?

 

Fuori della vasca, su massicci basamenti, contro una massa verde cupa di lauri, cipressi e pini, si stagliano gli altri quattro gruppi di figure. Ciò che subito impressiona è questa loro ciclopica tensione verticale. Ognuno - come già si è detto a proposito dell'Orfeo e Euridice - con questa sua mole maestosa, compatta e frontale. Non dissimile da quella del Monte Altissimo che li ha ispirati. Ognuno ad incarnare, a farsi interprete di quelli che sono stati gli atteggiamenti più radicali del sentire novecentesco. A partire dal mito di Narciso, dunque da un individuo incapace d'uscire dal proprio egotismo. Ribaltando un'iconografia tradizionale che di solito lo rappresenta lì, beatamente genuflesso sull'acqua a bearsi della propria immagine, il Narciso di Schonk è incapace di scorgere se stesso. In piedi, questa volta finemente modellato, prorompe il suo giovane corpo dalla pietra. Con una sfacciata bellezza che quasi aggredisce la luce. Ma invano! Cercar se stessi senza tener conto dell'altro, non può che portare alla disperazione di non trovare né se stesso né gli altri. Non vista, non ascoltata, non creduta, non amata la povera Eco rimane una creatura quasi "informe" nel blocco, invano ad inseguirlo alle sue spalle.

Oscuro è il cammino per il quale l'esperienza dolorosa del non essere più amati può trovare una sua liberazione. Passando anche attraverso la seduzione dell'ebbrezza di Dioniso, il dio che porta a maturazione la pena del rifiuto o dell'abbandono. Come accade in queste avvolgenti figure di Dioniso e Arianna. Splendidi corpi che s'inarcano e si tendono, quasi a formare un cerchio immenso e leggero. Con quel vuoto di cielo, al centro, che li divide. Dolce attrazione e diniego: come nel turbinare d'una danza. Sfiorandosi, lasciando intendere chissà che piacere di là da venire. Circolarità d'un desiderio che si moltiplica, illimitato. Quasi una pausa liberatrice nel drammatico sviluppo rappresentativo della fontana che trascorre da un gruppo all'altro.

 

Negli ultimi due, quelli relativi a Pigmalione e Galatea e ad Orfeo e Euridice, lo scultore sembra voler adombrare il senso ultimo che ha inteso dare a questa sua singolare impresa. Quale effettivo potere resti all'arte rispetto all'assurdità dell'esistenza e la violenza della nostra storia. Sotto questo profilo, le figure di Galatea ed Euridice diventano fra loro strettamente complementari. Entrambe si collocano lungo l'oscuro confine che separa la vita dalla morte. Nell'uomo-artista v'è quella percezione del divino che, senza requie, lo porta ad interrogarsi sul senso del suo necessario attraversamento. Tornano a mente i versi d'Ungaretti: "Mentre arrivo vicino al gran silenzio / Segno sarà che niuna cosa muore / Se ne ritorna sempre l'apparenza? // O saprò finalmente che la morte / Regno non ha che sopra l'apparenza?" ¹º Quale più temeraria (divina!) aspirazione per l'artista? Compiere il prodigio d'una trasmutazione impossibile: la pietra che diventa altro de sé, Galatea, a cui per sempre poter nutrirsi d'amore; o col canto richiamar dalla notte, almeno l'apparenza di ciò che è stata per noi la perfetta beltà d'Euridice? Da oltre quarant'anni, nella perfezione del marmo versiliese, come in un latte dell'anima, Aart Schonk ha insistito a inseguire una risposta. Mai avrebbe immaginato, in fine, di riceverne in premio l'accoglienza di questa sua Fontana dei sette miti in uno dei luoghi più prestigiosi del globo. Dove memoria e bellezza seguitano ad opporsi alla barbarie estetica che ci sta minacciando. Sui colli fiorentini il parco di Villa Torre di Sopra; proprio, non lontano da quel prodigio toscano di Bellosguardo, ove Foscolo coglieva uno dei punti d'arrivo delle umane possibilità d'armonia, vedendo l'amico Canova "Vestir d'eterna giovinezza il marmo". ¹¹

  Pietrasanta, 10 agosto 2009
Giuseppe Cordoni


Note
¹ Euripide, Al cesti, vv. 357- 62, (traduzione di G. Avvezzù)
² Cesare Pavese, Dialoghi con Leucò - L'inconsolabile, Einaudi, Milano 1973, p. 177
³ Umberto Galimberti, La casa di psiche - Dalla psicanalisi alla pratica della filosofia (La psicanalisi nell'età della tecnica), Feltrinelli
Milano 2005, p. 161
4 Jean De La Croix, OEuvres complètes, Coll. Bibliothéque Européenne, Desclée De Brouer, Paris 1979, p. 175
5 Louk Tilanus, Aart Sconk, Mithen & metamorfosen in marmer, BnM UITGEVERS - Nijmegen, 2007 p.107
6 Viene qui fatto riferimento a quella colonia di grandi artisti nordici che a cavallo fra Ottocento e Novecento (Adolf Von
Hildebrand , Arnold Bocklin, Elisabetta Bresster, Elisabeth Chaplin, per non parlare di scrittori come Thomas Mann o Aldous
Huxley che sulla spiaggia di Forte dei Marmi trovarono momenti straordinariamente favorevoli alla loro ispirazione.
7 Gabriele D'Annunzio, Alcione, Il Gombo, Treves, Milano 1919, p. 98, vv. 23-26
8 Ibidem, vv. 1-3
9 Louk Tilanus, op. cit., CIT., p.139
10 Giuseppe Ungaretti, Il Taccuino del Vecchio, 9 , vv.10-15
¹¹ Ugo Foscolo, Le Grazie, II, v. 45

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