Museo dei Bozzetti "Pierluigi Gherardi" - Città di Pietrasanta

 
 
 ... > Mostre > 2000 > Aldiqua del mare  le mostre
Aldiqua del mare

Loriano Geri


a cura di Giuseppe Cordoni

 

inaugurazione: sabato 24 settembre 2000 h. 16.00

esposizione: dal 24 settembre al 15 ottobre 2000

luogo: Sala dei Putti - Centro Culturale "Luigi Russo" - Pietrasanta

orario: da martedi a domenica h.15.30-19.00

ingresso libero


Comunicato stampa

Presentazione

Critica

 

Può l'evento d'un eclisse totale di sole rappresentare la sintesi estrema della visione a cui perviene la ricerca d'un pittore da sempre fedele ad un lungo e discreto dialogo con le cose?

 

E' quanto accade in quest'ultima fase dell'opera di Loriano Ceri, artista come altri pochi così intimamente legato alle icone dell'universo poetico viareggino, eppure così abile nel trasfigurarlo in metafore universali di solitudine e di precarietà, d'attesa e di consunzione. Tanto che ogni suo ultimo paesaggio ci appare come un trampolino sospeso sull'enigma della nostra esistenza quotidiana. Basta a tale proposito entrare nello spazio traslucido e rarefatto delle due "Eclissi" dipinte nel 1999, quasi con l'intento di riassumervi, ad uno snodo epocale, i modi e il senso di quell'appartato cammino che da sempre distingue la sua arte.

 

Nera pesa, in un cielo immenso, una luna accecata. Sembra lassù sospesa una luna di piombo che tra un istante precipiterà sovvertendo l'ordine stesso d'un mondo ormai destinato a sparire. Pende su in alto, al centro del quadro, sopra un relitto di costruzione industriale: forse la vecchia torre di comando d'una mancina del porto, o ciò che spettrale sopravvive d'un cancasseur di renaioli chissà da quanto in disuso ai margini del lago o del padule. O non c'è che lei sola ad invadere la tela, con questa sua straniata e apocalittica presenza, mentre giù in basso, in un angolo, insignificanti, appena s'intravedono i profili degli alberi e delle case. L'eclisse scorpora così la consistenza delle cose umane: implacabile le corrode con la sua ruggine, trasformando in un guscio consunto la loro sostanza minerale o metallica, si che un solo colpo di vento sembra che basti a trascinarle via. Mentre una luce da deserto, calcinata e irreale, venata d'un rosa stinto o d'un giallo morente, presta un'anima rassegnata al silenzio che tutto pervade ed annulla. Sgombrando così lo spazio dipinto, l'eclisse genera dunque l'idea d'un vuoto metafisico che attende l'ultimo nostro viaggio.

 

Perché infine la psicologia del profondo che agita l'intero discorso esistenziale di Loriano Ceri va forse ravvisata proprio nel motivo d'un viaggio avventuroso e liberatorio che non trova mai, o che non trova più, l'occasione del suo compimento reale. E che dunque finisce per tradursi in un'ansietà di fuga che trasfigura gli oggetti, i luoghi e gli strumenti e gli spazi stessi del viaggio in quinte e fondali, barriere e ordigni surreali che sempre ci precludono la vista dell'orizzonte marino. Ovunque la prospettiva frontale di Ceri sente nel vuoto dei suoi cieli immensi il mare senza vederlo.

 

E il mare resta un aldilà nascosto o temuto o tradito: invisibile come la divinità dell'Infinito il cui volto non ci è permesso di rappresentare. E chissà se proprio questo desiderio rimosso d'essere altrove non interpreta comunque uno stato d'animo dell'artista; o non piuttosto un sentimento di decadenza che attraversa la sua stessa città, avvezza in altri tempi a rischiare le vie del mare con bel altro ardimento; o non esprime infine questa nostra contemporanea ipocondria di "sbarcati" che hanno smarrito il senso del viaggio religioso attraverso l'Infinito. In ogni caso si resta sempre e comunque aldiquà di questo mare negato. E uno sguardo avido indaga proprio lungo la linea di confine che delimita e occulta l'orizzonte. Vi sono le carcasse di baracche bruciate di fronte ad una spiaggia invisibile e ad un cielo troppo vasto che sembra come il fuoco divorarle: finemente disegnato l'ossame delle loro interne strutture sventrate riverbera controluce, rivelando trame, intrecci, accordi di pali e travature con cui hanno sfidato venti di libeccio, mentre chissà quale altra violenza è approdata invece improvvisa a devastarle. Vi sono i lunghi muraglioni che nascondono darsene deserte. Raccolgono nel loro grembo la memoria e l'attesa d'ogni possibile viaggio: e neri o grigiastri, ci appaiono tramati da graffiti e parole scolorite il cui senso ormai ci sfugge; e basta che di poco sia diverso il colore del cielo, perché cangi anche il momento e l'umore del giorno; basta il sartiame delle navi alla fonda o di passaggio che appena sporge oltre di loro, o filiformi i triangoli delle alberature, o il profilo dei ponti di comando, o la bocca dei fumaioli, ad evocarci, struggente, la libertà del mare che non c'è; festosi contrastano con il grigiore d'un'aldiquà in cui viviamo come carcerati.

 

Del resto nella pittura di Loriano Geri, sin dai suoi strepitosi esiti giovanili, ci si muove entro uno spazio che viene sempre percepito come prigione, solitudine e silenzio. Basta ripensare a certe sue prime monotone, disadorne e annerite periferie senza cielo, dove una teoria di case, di muraglioni già evidenti anche qui nella loro risultante compositiva, saturava l'intera visione, negando ali '''oltre'', all'aria libera, al vuoto ogni diritto di cittadinanza.

 

Eppure vi permaneva l'esigua presenza di qualche viva creatura: in qualche curvo e rado passante o nella siesta di magri cavalli da tiro. E persino gli oggetti: le scheletriche e nere biciclette abbandonate, tipicamente geriane, diventavano emblemi d'una chiusa e sofferta condizione esistenziale. Ma si trattava comunque di tracce e di presenze ancora scopertamente umane, rivestite di grevi impasti bituminosi e smarrite fra gli incombenti volumi di ciechi cortili deserti.

 

Poi, a poco a poco, ogni figura umana, ogni segno di vita s’è dissolto. O meglio è rimasto soltanto come reperto fossile, ossame prosciugato, rei itto passato attraverso la forza vorace del fuoco. Lo si riscontra costantemente attraverso le innumerevoli nature morte, in cui lo spazio come L’oggetto rappresentato s’alleggerisce, e quasi perdendo ogni referente reale si dispone su una piatta, neutra e pressoché astratta bidimensionalità compositiva. E sembrerebbe di ritrovarci dinanzi a motivi e stilemi e atmosfere piuttosto consuete nella koinè più illustre della pittura versiliese, dominata peraltro quasi sempre da un cromatismo ferrigno o terroso e vòlto perlopiù a connotare ed esprimere gli umori della vita che si spegne. Basta pensare al nero d1ebano che in Viani accende la sostanza tragica delle sue figure, o alle ocre spente e di lavate che in Santini assorbono gli oggetti-emblemi del suo realismo esistenziale, o ai verdi malva in cui si stempera il lirico intimismo di Marcucci, per percepire nei suoi picchi più intensi proprio quella gamma cromatica del male di vivere con cui il genius loci versiliese ha saputo rispondere ad un secolo di assurdità e di violenze inaudite. Non v1è dubbio anche la pittura di Loriano Ceri aderisce e partecipa a questa attitudine di una cultura pittorica, come quella viareggina, che è stata, per oltre mezzo secolo, capace di traslare nel volto d1una città e d1un paesaggio anche le più intime mutazioni degli animi e delle coscienze. Ma è doveroso a questo punto saper individuare criticamente quel tratto che ne sancisce invece I’esito suo più originale. E io credo che possa esser colto senz10mbra di dubbio proprio nella frontalità dell1impianto spaziale a cui perviene. Nel vuoto che invade la tela, nella levità lunare che scorpora le cose e le rende così sottili, come di carta velina, e quasi irreali. Come bene ha messo in evidenza Nicola Miceli, Ceri sostituisce alle tradizionali inquadrature oblunghe orizzontali della tradizione visuale versiliese, “schemi” in cui si riconoscono i tagli derivanti dalla Nuova Figurazione, e dunque d1un linguaggio visivo tributario del cinema ancor più che della fotografia ... Una sintassi molto semplificata, ovviamente, ma che proprio per questo diviene un dato stilistico interessante sicuramente non banale, capace semmai di “caricare” di una certa stranita “imaginerie” questi progetti che altrimenti sarebbero semplici ricognizioni figurali.”

 

E lo si percepisce persino in quelle vedute di darsene e cantieri viareggini quasi “fotografati” con un nitore grafico assoluto.

 

Ma la lunga e quotidiana confidenza percettiva del soggetto non deve qui trarci in inganno. Perché anche l'ombra dei capannoni, il profilo della lunga nave in costruzione, le grandi lettere "SEC" alzate sui tralicci del cantiere, appaiono in verità ben altro da uno scampolo di città conosciuta. S'impongono invece, con questa loro atmosfera straniante e sognata, come luoghi di desolata incompiutezza. Come se l'uomo li avesse disertati all'improvviso. E sembra allora ogni tramonto, ogni lento e irrimediabile crepuscolo essere causato proprio da quest'umano abbandono. Così, come nell’"Eclisse", anche qui le cose finiscono per smaterializzarsi aggredite da una luce di ruggine che rapida le corrode; in bilico fra troppo cielo e il filo d'acqua stagnante, solo aspettano d'essere inghiottite, ("Tramonto in Darsena", 1998). E in queste immagini di taglio frontale che meglio colgono l'idea di precarietà che più minaccia le cose dove l'uomo s'è dissolto, Loriano Ceri inserisce un altro aspetto decisivo della sua peculiarità cromatica. Perché anche la sua modulazione parrebbe inserirsi in quel solco dell' intimismo tonale che meglio sviscera gli stati d'animo e che, come sottolineavamo, sempre caratterizza la grande tradizione versiliese. E se pure è evidente come anch'egli scremi sempre la tavolozza verso grigi semitoni, accade invece che se allontani proprio per quella sua stesura traslucida e calibratissima delle tinte più fredde. Cosicché queste sue ultime figure vi si ritagliano contro, timbricamente dissonanti; e come già fuori del tempo, sembrano ormai fissarsi ad una distanza smisurata da chi le guarda. E questa loro oggettiva estraneità ce le rende ancora più inafferrabili. Tanto che certe subitanee accensioni dei rossi ruggine o dei bruni conferiscono alle nude sagome di ciò che appare la parvenza d'un miraggio, ("Nave in costruzione",1994). Proprio questa atipicità della visione così traslucida, straniante e sognata conferisce infine all'arte di Ceri una peculiarità che assolutamente lo distingue. Così a chi sosta deluso aldiquà del mare sembra che a poco a poco il mondo finisca per spogliarsi d'ogni presenza reale. E soltanto l'immaginazione è in grado di fingersi il limite estremo del viaggio: l'isola senza tempo, la spiaggia fine e impalpabile su cui anche il guscio d'ogni vita fuggita: un bucranio abbandonato, seguita teneramente a dialogar con la luna. E allora tocca a Loriano Ceri il compito di tradurci il candore sovrumano di questo loro silenzio.

 

                                                                                                    Pietrasanta 4 settembre 2000

                                                                                                         Giuseppe Cordoni

Biografia