Museo dei Bozzetti "Pierluigi Gherardi" - Città di Pietrasanta

 
 
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1° Edizione: Leone Tommasi

Omaggio alla memoria di Leone tommasi


inaugurazione: sabato 29 marzo 1997 - h. 11.00

posizione: dal 29 marzo al 10 aprile 1997

luogo: Chiostro di Sant' Agostino - Centro Culturale "Luigi Russo" - Pietrasanta

orario: da martedi a domenica h. 15.30-19.00

ingresso libero

 

Leone Tommasi è presente nella collezione del Museo dei Bozzetti


Comunicato stampa

Presentazione

Critica

Il mio più lontano ricordo di Leone Tommasi risale al 1923, quando lui era un giovane di venti anni ed io un ragazzino di sette. Si era a Roma, in primavera, a piazza di Siena, durante il corso dei fiori. Si stava sui gradini dell'anfiteatro, mentre in basso, sulla pista erbosa fra due grandi siepi di mortella passavano le carrozze con gli equipaggi in costume che gettavano garofani e mimose al pubblico. Leone era il più svelto di tutti ad afferrarli al volo e a regalarli alle signore della compagnia. Ricordo benissimo il viso colorito, gli occhi che ridevano sotto la tesa di un gran cappello, il cravattino a farfalla scompigliato.

Ancora un'immagine, sempre di quei lontani anni. Questa volta la scena è cambiata, anche se le persone sono le stesse. Siamo in Versilia, io e i miei parenti, genitori, sorelle, zii, cugini e cugine sul tram che va da Pietrasanta a Fiumetto. Leone ci accompagna in bicicletta, la sua bicicletta da corsa, tenendosi all'altezza dei nostri finestrini, accelerando se il tram accelera, rallentando quando frena, col pizzetto che gli oscilla sul mento, i capelli che si agitano nel vento della corsa. A metà percorso c'è una fermata. La linea è a un solo binario e bisogna aspettare che arrivi il convoglio da Fiumetto, per lo scambio. Lo si vede in fondo al rettilineo che arranca alla nostra volta. Aspettando si chiacchiera; noi sopra, seduti sulle panchine, lui sotto seduto in sella appoggiandosi con le mani al bordo del finestrino come al davanzale di una finestra. Le signore ridono, si divertono, come in quel pomeriggio a piazza di Siena, una in particolare, la più giovane e la più carina. Quando finalmente un fischio annuncia che stiamo per ripartire, Leone si stacca dal tram, e poi, precedendoci di un mezzo metro, aumentando progressivamente la velocità, riprende la sua corsa, fino alla fermata finale, terminando rialzato, con le mani ai fianchi, sotto i nostri sguardi ammirati.

Di lui sapevo ben poco allora. Sapevo che era un artista, uno scultore, che aveva vinto un premio importante, che da Milano, dove aveva studiato a Brera, s'era trasferito per lavorare a Roma, da dove all'improvviso era venuto via, in rotta con l'ambiente della capitale, per ritirarsi a vivere, ancora giovanissimo, nel suo paese d'origine, Pietrasanta. Sentivo dire, in casa, che era stato un grande errore: che un artista con un avvenire come il suo, non avrebbe mai dovuto tagliarsi a quel modo le strade del successo. Si parlava di tutto ciò con rammarico. Ma non appena lui appariva, l'espressione seria spariva dai visi, e non restava che la sua allegria, la sua gioia di vivere che si comunicava rapidamente a quanti gli stavano incontro, fugando ogni dubbio. «È così bello essere al mondo, sembrava dicesse, che cosa si pretende di più?» S'era sposato aveva dei figli, lavorava; alla bicicletta s'era sostituita la moto ch'egli spingeva al massimo della velocità, da campione, accrescendo l'ansia dei familiari, dei parenti e degli amici benpensanti, gli stessi che rimpiangevano che per un colpo di testa, un atto di orgoglio, di indipendenza, avesse rotto con chi gli sarebbe stato certamente utile per la sua carriera.

La bicicletta, la moto, la chitarra, la sua voce profonda, calda di baritono mentre canta delle romanze d'opera o una canzonetta in voga, il suo viso esprimente una sana fiducia nella vita, le sue mani vigorose che modellano la creta, rifiniscono il marmo, la sua risata contagiosa ... tutto ciò si accavalla nella mia memoria, finché, molti anni dopo, siamo nel 1938, ecco un'immagine più chiara, ferma, di quelle che restano a segnare una svolta. È la fine di settembre, verso sera, e su quella rotonda di legno che si protende in mare, a Fiumetto, ci siamo soltanto noi due, seduti a un tavolo l'uno in faccia all'altro, con una bottiglia di vino in mezzo. Sono uomo anch'io ora. Siamo finiti lì dopo una lunga corsa in bicicletta sul viale. lo parlo e lui mi ascolta incuriosito. Gli sto raccontando dei miei progetti, di ciò che vado scrivendo. Non avevo ancora pubblicato una riga, eppure credo di non essermi sentito mai tanto scrittore come in quel tempo, convinto com'ero di essere il primo, l'unico, chiamato a esprimere certe verità, sensazioni, immagini, emozioni, mai dette prima, indifferente a tutto il resto, carriera, successo, denaro, e anche giudizi altrui. Ero molto confuso nel mio modo di parlare, tuttavia avevo l'impressione che egli mi capisse perfettamente, cogliendo al di là delle frasi imprecise, il fondo del mio pensiero, o meglio del mio atteggiamento. on gli importava di sapere se ciò che scrivevo fosse bello o brutto, almeno per il momento: gli importava invece che io avessi deciso di fare esclusivamente ciò che mi piaceva, non curandomi di ciò che avrebbero fatto gli altri. Rideva, guardandomi, soddisfatto, come se avesse trovato un amico. Ed era come se i tredici anni che ci dividevano, con tutta la diversità di esperienza che comportavano, non esistessero più. E sempre nei suoi occhi brillava quell'illimitata fiducia nella vita, quel piacere di sentirsi al mondo con un infinito numero di anni davanti. Ora, mentre parlo di lui, sento una specie di rimorso, come per avere tradito quella fiducia. Non erano passati tre anni da quella sera di settembre, il giovanotto che gli sedeva davanti, parlando con un'intonazione di voce più alta del naturale, d'arte, di libertà, e di altre «elevatezze» (come dicono i personaggi di Cecov) era molto cambiato. Il fatto è che a venticinque anni, avendo pubblicato qualche racconto su alcune riviste «importanti», mi sentivo già molto «uomo di lettere». Mi sorvegliavo, tendendo l'orecchio, annusavo l'aria, facevo attenzione a non dire «sciocchezze», misuravo le mie parole (su quelle degli altri), attento a non commettere «errori», e insomma mi andavo dimenticando di quello che ero veramente, in nome di non saprei più dire quale modello, quale astratto personaggio. on ero più così indifferente al giudizio degli altri ... Un pomeriggio, io e Giorgio Zampa, di poco più giovane di me, e come me affetto dalla stessa insicurezza, andammo a trovare Leone Tommasi nel suo studio. Ci accolse amichevolmente come faceva con tutti, senza distinguere, il signore, l'operaio, l'artista, l'ignorante, non smettendo di lavorare o interrompendosi solo per pochi minuti. In quelle occasioni non parlava mai del suo lavoro, né richiedeva, magari indirettamente, giudizi, critiche o approvazioni. Ne parlavano gli altri, lui lasciava dire. Dunque io e Zampa si parlava ... letteratura, arte, scultura, Medardo Rosso, Maillol e Despiaux, Martini, Marini, un po' tutti, e lui interveniva di tanto in tanto. Niente di strano, in questo, solo che le parti erano invertite. Noi due, giovani, eravamo molto cauti nei nostri giudizi, stemperavamo tutte le punte in una nebbia di parole; lui, già entrato nell'età matura, era sui quarant'anni, appariva molto più spregiudicato e irriverente quando si accennava a certi idoli del nostro tempo. Si stava sfogliando un grande volume di riproduzioni d'arte contemporanea, dagli impressionisti ad oggi. Erano poche quelle che ci piacevano veramente; in maggioranza ci davano sensazioni sgradevoli. Mai però che dalle nostre bocche uscisse una parola franca, decisa che esprimesse quel sentimento. Per tutte, anche le più esecrabili, trovavamo delle giustificazioni, ricorrendo alla storia, alla cultura, alla società, alla filosofia. E lui, che si fidava solo dei suoi occhi, a ridere, forse godendosela per il nostro imbarazzo. Finalmente gli occhi ci caddero su un dipinto brutto fino al ridicolo. Ma come dirlo quando il nome dell'autore era circondato da tanta fama, e si leggevano, in proposito, tante parole difficili? Se la critica, se illustri personaggi, artisti, letterati, consideravano «importante» quel dipinto, era giusto fidarsi della nostra reazione istintiva? A chi si doveva credere? Leone, da uomo di mestiere, ci indicava col dito le debolezze del disegno, e, sotto l'apparente arditezza, la banalità della composizione. « Com'è brutto!, esclamava, Dio com'e brutto! ». Rideva e noi avremmo voluto fare altrettanto, ma eravamo capaci soltanto di tirare le labbra in una smorfia fastidiosa. Già allora trascorrevano le vacanze in Versilia numerosi artisti. Alcuni di loro, Soffici, Carrà, erano andati a trovarlo. Sapevano di questo scultore naturalmente dotato che viveva per conto proprio, ed erano curiosi di vederlo. Egli li aveva accolti con la stessa naturalezza che riservava a chiunque, priva di cerimonie, e li aveva lasciati girare nello studio senza disturbarli. Mentre quelli si fermavano davanti a una testa, a un busto, guardavano, toccavano, parlavano fra di loro, egli continuava ad occuparsi del suo lavoro, come se in partenza conoscesse l'inutilità delle parole che avrebbe potuto dire, sapendo che non c'è nessuna possibilità di tradurre in un linguaggio razionale ciò che è proprio dell' arte. Se poi si decideva a parlare era per gentilezza, portando subito il discorso su altri argomenti più profani, magari una specialità della cucina locale, o una passeggiata sui monti. Avrebbe potuto quando avesse voluto tornare a Milano o a Roma, riannodando le fila di vecchie conoscenze; senza pagare un gran pedaggio gli sarebbe stato facile rientrare nell'ambiente. Credo che non pensasse mai a un'eventualità del genere. Non provava, o almeno non lo mostrava, quella nostalgia per le grandi capitali dell'arte, così acuta nell'artista che vive nelle epoche decadenti. Gli piaceva il suo paese e non credeva che, per l'essenziale, Pietrasanta fosse differente da Roma, Parigi o Londra. Conosceva il mondo. Era stato in Francia, in America; gli era piaciuta immensamente New York di cui apprezzava i valori architettonici e urbanistici; ma al ritorno da un viaggio non stava a perder tempo in oziosi confronti. Non aveva mai creduto che per fare dell'arte, quella con l'A maiuscola, la sola che ai suoi occhi meritasse attenzione, fosse necessario vivere in una fetta «importante», privilegiata, del mondo. Poteva crederlo chi si sarebbe contentato di un modesto obbiettivo, di un successo effimero nell'ambito di una moda, non lui che si manteneva fedele all'ideale di un'arte grande. Il tempo scorre diversamente a seconda dei luoghi, ma l'eternità è uguale dovunque. Intanto continuava a vivere intensamente la sua vita. A un'età in cui i più cominciano a risparmiare, ad amministrarsi, egli godeva ancora pienamente le sue giornate. Era capace di uscire in barca nelle prime ore del mattino e restarvi fino a notte, sotto il sole e la frusta del vento, vagabondando fra la foce del Magra e quella del Serchio, intento a pescare, come un uomo di altri tempi, con gli attrezzi che risalgono alle epoche più lontane, la lenza, la sciabica, i bertitelli, i palamidi, ancora in uso fra i pescatori della costa. Sul lago di Massaciuccoli aveva il suo capanno per la pesca, la sua botte, in cui star nascosto in silenzio, per ore, in attesa del «passo». E non sapevi se amare di più la sua abilità, la sua resistenza o la felicità che gli brillava negli occhi al ritorno da quelle spedizioni.

Una volta, negli ultimi anni della sua vita, gli chiesi di accompagnarlo in una battuta. Volevo fare anch'io il pescatore, almeno per un giorno. Poi, all'ultimo, disertai. L'idea di cuocere al sole per delle ore mi aveva spaventato. Non ricordo quale scusa accampai. Lui non disse nulla. E non disse nulla, non fece commenti, nemmeno la sera, quando tornò, rosso, bruciato, col suo carico di ciortoni, aguglie mazzancolle, buoni per il cacciucco. Ma nel suo silenzio sentivo la stessa forma di rimprovero di molti anni prima, quando la timidezza, e, diciamolo pure, la vigliaccheria, mi aveva impedito di associarmi a lui in una franca risata sulla bruttezza del dipinto che ci stava sotto gli occhi. Non ebbi più occasione di andare in barca con lui. S'ammalò. Certamente sapeva d'essere condannato, ma non lo dava a vedere, e non si perse mai d'animo. Fino all'ultimo continuò a lavorare. Non potendo scolpire, disegnava, dipingeva. E come già il suo studio, la sua camera all'ospedale era diventata un luogo di ritrovo per tutti gli amici. Sapevamo che s'avvicinava la fine, ma vedendolo, sentendolo parlare, ridere, si era tentati di dubitare dei medici. Negli occhi non si leggeva il presentimento della fine. Pochi giorni prima di morire mi recitò in dialetto romanesco «la scoperta del!' America» di Pascarella. Ricordavo poco il famoso poemetto e m'ero completamente dimenticato della sua bellezza. Quando arrivò a recitare il passo in cui si descrive l'ampiezza dell'Oceano, mi resi conto, per la prima volta, che si trattava di poesia, autentica poesia. Lui recitava, guardandomi, mentre la suora gli stava accomodando i guanciali, gli rifaceva la rovescia del lenzuolo sulla coperta e gli raccomandava di non stancarsi, di riposare. La sua morte, il 5 marzo del 1965, fu un vero lutto per tutta la sua città. Sembra una frase convenzionale. lo stesso, leggendola in un'altra occasione, ne proverei fastidio. Non ho mai creduto ai lutti nazionali o cittadini. Eppure fu proprio così. La partecipazione, il dolore di tutti si manifestò chiaramente il giorno del funerale, un pomeriggio di domenica. AI trasporto si può per davvero dire che ci fosse tutta la cittadinanza, dalle autorità agli operai delle segherie e dei laboratori. La bara era portata a spalla dai figli e dagli amici più intimi che si alternavano fra loro, e sempre portata a spalla percorse tutta la strada, un paio di chilometri dalla chiesa al cimitero, in campagna. C'era una bella luce, pulita, e nell'aria si sentiva l'avvicinarsi della primavera. Il corteo avanzava lentamente e le automobili che ci venivano incontro si fermavano ai lati, spegnendo il motore, e negli occhi di chi era a bordo leggevo la meraviglia che destava quella manifestazione così insolita, oggi, che tutti cercano in ogni modo di nascondere la morte e di non pensarci. Era una cerimonia estremamente semplice nella sua solennità, ed era proprio questa naturalezza a renderla giusta anche agli occhi di uno come me che ha sempre avuto orrore di certe cose per la loro inevitabile esteriorità e falsità. Ho ancora negli orecchi lo scalpiccio dei passi non sempre accordati degli uomini che portavano la bara sulla strada a saliscendi, nel silenzio così insolito sulle strade del nostro paese, specie in un pomeriggio di festa.

Ho detto della naturalezza di quell'omaggio popolare.

C'era un profondo significato in esso. C'era un'altra vita, un'altra realtà, un'altra Italia che faceva sentire la sua voce sommessa, ma ferma. Una realtà più umana, più vera, più solidale e coraggiosa che ancora esiste, anche se non si scorge a prima vista, oppressa dagli aspetti più rumorosi e anonimi della vita moderna. Una realtà che non esiste soltanto nei paesi, ma anche nel cuore delle città, di ognuno di noi, in cui gli affetti, le amicizie, il carattere individuale hanno ancora un valore; in cui il lavoro ben fatto è tenuto in onore più della moda. Quella realtà da cui sono nati .tutti i grandi artisti del passato e che aspetta la nascita dei nuovi.

 

Manlio Cancogni

Biografia