Paul Pennisi
inaugurazione mostra: giovedì 9 giugno 1994 - h. 18.00
esposizione: dal 9 giugno al 3 luglio 1994
luogo: Sala del Capitolo - Chiostro di S. Agostino, Pietrasanta
orario: da martedì a sabato 18.00-20.00, 21.00-24.00
ingresso libero
Comunicato stampa
Presentazione
Critica
Viaggia il nostro Pio .Panl. Pennisi di Floristella e predilige la Grecia, gli piacciono i romitori, i conventi sperduti, i luoghi dove l'uomo si illude di essere più vicino a Dio. E certo la solitudine conduce al misticismo, favorisce straordinarie apparizioni. Nell'assoluto silenzio si sentono le voci, che talvolta si amplificano in un grido. Così l'esistenza di Dio si fa propriamente sonora, tocca, cioè, i sensi senza avere materia, come è proprio della musica, impalpabile e fisicamente presente. Va in Grecia Pennisi e vede Kastoria, le Meteore, Monte Athos. Immagina e riproduce la vita di quei monaci ritrosi, ma intuisce che il loro segreto sta in una manualità estrema, in una concentrazione superiore. Le icone, nella loro fissità, nella loro immota perfezione vogliono corrispondere fedelmente all'immagine immutabile di Dio. on sono l'estro e l'invenzione che contano, ma proprio la ripetizione, la meccanica insistenza. Questa staticità, questa impossibilità di una definizione cronologica incantano Pennisi. E di li parte la sua ricerca che è una prodigiosa lotta contro il tempo, una continua fuga dal suo incombere. E se il tempo ha un corso, Pennisi tenta di risalire all'indietro, per contrastarne la corrente. Una mano paziente lo assiste per chiosare le immagini in una arcaica lingua greca. Le sue tavole raccontano così una storia che non ha nulla di illustrativo e tutto di evocativo. on c'è un rapporto vero tra parola e immagine; né la prima sostiene la seconda con abbellimenti letterari. D'altra parte ogni espressione estetica ha le ragioni prime in una intuizione prelogica, in una inevitabile attrazione per ciò che è originario, che sta dentro di noi. Così, nell'inventare le sue architetture di monasteri arrampicati sui dirupi, nell'immaginare città fondate su rocce sospese nel vuoto, Pennisi non opera soltanto una congiunzione tra tecnica orientale delle icone e iconografia occidentale derivata, come hanno ben visto i suoi interpreti, dai primitivi italiani, da Duccio e Giotto, e anche da Piero della Francesca; ma ricostruisce l'immagine folgorante della natura siciliana Grecia-Magna Grecia; Meteore-Faraglioni. Nel suo viaggio dentro la storia e contro la storia, nel passato immobile dei monaci, egli ritrova le immagini prime della sua infanzia, i picchi sul mare su cui si erge la rocca normanna di Acicastello, dove architettura e natura sono una cosa sola. Siccome il tempo è il suo primo nemico, ecco allora la dimensione atemporale del fondo oro. Ma in questa operazione ripetitiva, meccanica eppure autentica, non c'è ideologia. C'è ancora una volta la fedeltà a una cultura, a una quasi ignorata tradizione locale. Nel suo intimo Pio «Paul» Pennisi di Floristella si rende ad Acireale, dove in questi ultimi anni è tornato a lavorare. La conoscenza del mondo lo risospinge alle origini ed egli ricomincia a vedere le «meteore» davanti a casa. E torna così ad essere figlio di quella civiltà che nelle Chiese di Acireale ha espresso l'opera solerte e dignitosa di Pietro Paolo Vasta e poi dello stesso maestro di Pennisi, Francesco Mancini. Come loro, anche se per una strada tutta sua, visionaria, pur nella singolarità della scelta di essere pittore di icone, Pennisi ha la coscienza che la pittura fonda sul mestiere e che è meglio essere buoni artigiani che cattivi artisti. Così cura meticolosamente ciò che ogni altro trascura. Sceglie la tavola, la prepara, distende il gesso levigato, dispone sul bolo la foglia d'oro e poi lentamente dipinge campiture quasi astratte, puri intarsi di colore che alla fine si ricostituiscono in una immagine di architettura. E prosegue l'opera paziente, ignorando la figura umana, non confrontandosi con l'ineffabile ma tentando semplicemente di dare un solido scheletro alla immagine perché si sostenga nel presente, tutta fatta come è di passato. In questo sta l'idea centrale della sua opera, e pretende di non avanzare e ostinatamente si affida a ciò che è più inattuale. Ecco allora, in alternativa alla tavola, l'uso della pergamena. Pennisi la sceglie di grandi dimensioni, come la pagina preziosa di un corale che ci sia giunto dopo perigliose avventure, dopo distruzioni, documento di un immaginario dimenticato. È questa persistenza della memoria, questa indifferenza al tempo o, meglio, questa continua con temporaneità al passato che fanno di Pennisi un eccentrico testimone di un mondo che non esiste, ma che pur sopravvive in quei luoghi del non essere, o dell'essere supremo, che sono i monasteri della Grecia. E anche in quel monastero che è il suo cuore, dove vive un'infanzia favolosa di castelli e di rocche, di mare minacciato dai Saraceni e di spirito vittorioso delle crociate, di giochi che si sovrappongono alla storia, trasportando tutto il passato nell'infanzia. In questo grande ritorno, in questo identificarsi dell'iconografia con la memoria, non è senza rilievo che Pennisi sia ritornato nél Castello in stile arabo-normanno che suo nonno fece costruire ad Acireale dall'architetto Giuseppe Patricolo. Un Castello incantanto, inventato, infinito, luogo senza misteri e senza storia, ma con tutta l'apparenza di ciò che non gli appartiene e che non rappresenta. Lo stesso spirito di finzione e di corrispondenza a un mondo che non c'è delle icone profane di Pennisi che, ora, impreviste ma chiamate, ne adornano le grandi stanze. Anche il Castello, come Pennisi, appartiene ad Acireale e alla sua storia pur restandone isolato, facendo centro in se stesso.
È in questa duplicità, in questo essere artigiano nella tradizione, in questo essere fuori da tutto, senza rapporto con il suo tempo, che Pennisi trova una ragione soltanto sua, che non chiede consenso e legittimazione ma contemplazione. Su questa rotta, pellegrino in Macedonia, Pennisi può incrociare, senza conoscerli e senza essere riconosciuto, altri solitari provenienti da Bisanzio, da Ravenna, da Roma, e ancora persi nel labirinto del Medioevo. Sul mare, su altri mari, alla voce, risuonano i loro nomi: Galeazzo Viganò... Gaetano Pompa. Nomi dispersi. E non vogliamo aggiungere altro.
Vittorio Sgarbi
Biografia
Testo autobiografico
Ho sempre pensato che nei cataloghi o nei cosiddetti programmi di sala, le fredde note biografiche che si snodano in una lista di date non danno contezza dell'humus nel quale, una vocazione all'arte, è maturata, ed anche se l'opera nella sua autonomia dovrebbe non aver bisogno di supporti di alcun genere, mi piace qui invece ricordare alcune circostanze apparentemente insignificanti della mia vita trascorsa che forse (se il dubbio è d'obbligo soprattutto in questi argomenti) possono dare una chiave di lettura più appropriata, una indicazione meno equivoca per «guardare» il mio lavoro. Dirò dunque che sono nato in una famiglia dell'aristocrazia siciliana nel 1930; in epoca in cui ogni vita era segnata da precise scadenze e recinti e i bambini ascoltavano gli adulti tacendo.
Agostino Pennisi di Floristella, mio padre, «agricoltore» certo, ma soprattutto uomo di lettere e grande numismatico secondo l'antica tradizione che si era venuta a tessere nella cura di una collezione di straordinari coni greco-siculi, era stato in gioventù pittore di quel dilettantismo eccelso così frequente in quegli anni. Agata Francica Nava di Bondifé, donna dal carattere dolcissimo, brillante e allegro, era dedita ad aiutare il prossimo ma anche, naturalmente, ad allevare i nove figli dei quali io sono l'ottavo. Dal suo amore per la musica e per il teatro nascevano nelle lunghe villeggiature financo quelle recite familiari alle quali lei stessa prendeva parte e che erano per noi occasione di inenarrabile divertimento e giuoco creativo. La primavera era la stagione che aspettavo con grande trepidazione non solo perché nella casa di città e secondo la radicata convinzione che in Sicilia il freddo non esiste lo si soffriva notevolmente, ma perché con tutti i famigli e i necessari ci si trasferiva ai margini di Acireale in un grande castello di stile arabo-normanno che l'architetto palermitano Giuseppe Patricolo aveva progettato per mio bisnonno. Questo cambiamento rappresentava per noi una anticipazione delle vere vacanze ed era comunque un muoverei in grande libertà nello spazio verde e nel silenzio.
Qui veniva il Maestro Francesco Mancini per le lezioni di pittura, e qui puntualmente si susseguivano le lezioni di musica.
La vicinanza di età con l'ultimo dei miei fratelli, Francesco, ne fece il mio naturale compagno di giuochi. Ricordo per esempio come durante la guerra, costretti a passare un intero inverno in una casa sul mare di Pozzillo, avevamo realizzato un funzionalissimo teatrino con «pupi» di sughero, di ferula secca, di legno e di latta nel quale con le mie scenografie si rappresentavano certi suoi curiosi testi che sarebbero piaciuti ad Achille Campanile; le recite avevano grande pubblico familiare e paesano e grande successo.
Ricordo pure che in quegli stessi anni avevamo elaborato una lingua corredata di grammatica e sintassi che parlavamo correntemente.
Più tardi, finiti gli studi liceali, con Francesco ci trasferiamo a Roma, io per studiare architettura, lui per studiare musica: oggi è tra i più stimati compositori italiani. La mia trafila, il mio approdo alla pittura, è invece stato più complicato. Quando mio padre capì che i miei studi di architettura non sarebbero arrivati alla fine dovetti trovare un lavoro per restare a Roma, così lavorai come illustratore per una nota Casa Editrice, creai poi una agenzia di pubblicità e di visual design, ma negli spazi liberi del mio tempo o nottetempo dipingevo senza freni e cominciai così a partecipare alla vita artistica romana. Ma alla ricerca di nuove visioni (il paesaggio essendo la più diretta fonte di suggerimenti per la mia pittura, un paesaggio dove l'uomo non entra, ma nel quale sono protagonisti i suoi segni, i manufatti, il suo passaggio) dieci anni dopo lasciai Roma, abbandonando tutto e mi trasferii in Grecia dove cominciai la mia vita di pittore a tempo pieno. L'incontro con i monasteri del Monte Athos, con le isole bianche, con le icone bizantine dai fondi oro, fu per me folgorante. Ebbi l'opportunità di frequentare in raccoglimento le biblioteche, i laboratori dei monaci- pittori, ed elaborai così con altre tecniche il mio modo di tradurre sulla tavola le mie visioni. Dopo altri dieci anni, tornato in Italia, mi stabilii a Milano dove partecipai alla sua intensa vita artistica, e furono anni di approfondimento, di conoscenza di lavoro, di grandi mostre. Il desiderio maturato via via nel tempo di rientrare quasi stabilmente in Sicilia, nella sua luce, ho potuto attuarlo solo da pochi anni; ho così fissato il mio studio in una delle grandi torri del castello disegnato da Patricolo e ora quasi tentano di entrare nelle mie tavole i merli federiciani, le tarsìe di pomice nera e arenaria, le decorazioni prese in prestito da Forza d'Agrò, dalla Taormina dei Re Martini, da quella Sicilia che il mediovalismo fin-de-siécle ha reinventato come sulla scena appena inaugurata del «basiliano» Teatro Massimo.
Paul Pennisi