Francesco Martani
mostra a cura di Giuseppe Cordoni
inaugurazione mostra: venerdì 15 aprile 1994 - h. 18.00
esposizione: dal 15 aprile all' 8 maggio 1994
luogo: Sala dei Putti - Chiostro di S. Agostino, Pietrasanata
orario: da martedì a venerdì ore 14.30-19.00 / sabato ore 14.30-18.00
ingresso libero
Comunicato stampa
Presentazione
IL SOLE A MEZZANOTTE
(L'ultimo percorso della pittura di Francesco Martani)
«Il viaggio delle variazioni ci porta dentro quest' "altro'' infinito, nell'infinita varietà del mondo interiore, che si cela in ogni cosa»
MILAN KUNDERA
Un vento a raffiche, prepotente e gelato, spazza dossi e tornanti; pettina fitte ramaglie e declivi spellati dal doponeve. Come un vetraio sovrumano affina sull'Appennino bolognese questo cristallo troppo fragile di cielo; lo scava sino a fame un puro vuoto celeste dominante: luce invernale dell'attesa, luce incantata d'ogni nascita e d'ogni metamorfosi. L'autostrada è un nastro argentato che avvolge un paesaggio immateriale e fragrante, come incartato per un dono. Francesco Martani sta guidando controvento, a forte andatura, in questo tunnel di trasparenza che imprime alla nostra corsa la leggerezza d'un volo.
Anche le sue parole sull'arte frullano via come semi affidati alle mani di questo vento e alla sua imprevedibile sorte. C'è in ogni scelta del nuovo l'alea della scommessa e l'inquietudine dell'avventura che precede ogni viaggio. In quante direzioni egli ha spinto la sua curiosità? È la sua antica anima contadina e mantovana ad alimentargli questo suo duplice desiderio di concretezza e stupore? La vita è un campo aperto a ogni conoscenza: può essere arato e seminato e poi saccheggiato d'ogni raccolto, ma anche contemplato e amato nel segreto ininterrotto delle sue nascite e delle sue morti.
Al suo sguardo di medico-poeta il corpo dell'uomo è così sempre apparso come tempio del mistero di tutto ciò che è vivente; o come teatro su cui viene recitato il perpetuo dramma della salute e della malattia. In lui l'artista e lo scienziato hanno intrapreso dunque un medesimo viaggio in una terra sconosciuta: convivono e s'affannano, ognuno con un suo codice particolare, nello sforzo immane di sanare l'irriducibile contraddizione che seguita a lacerare tragicamente la sensibilità di questo tempo. Una sgomentosa voragine s'è infatti spalancata fra il vero della scienza e il mistero della poesia: «Si va facendo la frattura fonda» - ammoniva profeticamente Ungaretti.
Ora quasi tutto il lungo cammino della pittura di Martani s'è volto a rimarginare questa frattura dolorante fra "vero e mistero". La critica ha ampiamente sviscerato com'essa si sia coraggiosamente avventurata in spazi ancora vergini della percezione visiva, in una realtà allargata, scomposta, extra-sensoriale: un mondo in cui le cellule e i cromosomi si sono ingigantiti a misura del nostro sguardo e le stelle sono discese a portata di mano. Pascalianamente egli ha percepito tutta la bellezza vertiginosa di questi due abissi! Così lo scienziato ha sempre offerto al pittore stimoli e suggestioni sorprendenti, colti al volo, coniugando finalmente due mondi e due linguaggi che troppo spesso seguitano ad apparire come drammaticamente contrapposti: o che nella nostra cultura hanno comunque teso a escludersi vicendevolmente. Argan ha ben individuato gli estremi di questa complessa e attualissima "querelle": «... il problema, assai più profondo, consiste nel sapere se scienza e arte possano ancora far parte d'uno stesso sistema culturale e se, addirittura, possa ancora sussistere un sistema culturale unitario, risultante da relazioni dialettiche tra discipline diverse. Martani pensa invece la scienza e l'arte come esperienze esistenziali distinte e interferenti: gli uomini del nostro tempo non possono non viverle e dal loro combinarsi dipende la condizione di equilibrio o di dissociazione della coscienza».
Ma questa combinazione è stata sempre tutt'altro che pacifica, visto il ruolo del tutto secondario e infinitamente svantaggiato che vi ha occupato la poesia. La sproporzione è stata comunque a suo danno e il più delle volte in modo irreparabile. Gli occhi della scienza possono ormai frugare i deserti più lontani del cosmo, come la cellula più palpitante del nostro corpo con la medesima lucida indifferenza; possono spogliare la Creazione del suo mistero vitale, non perché essi siano riusciti a penetrarne l'essenza o lo scopo. In verità se puntualmente la poesia non interviene a esaltarne i prodigi, essi sono capaci soltanto di profanarne la sacralità e di svilirne l'immagine: sino a renderla usuale e pertanto prevedibile, consumabile senza rimorsi. Scoprono soltanto utili verità inanimate che non scaldano il cuore! Così un'iconografia scientifica sempre più vasta finisce per depauperare la natura della sua magnificenza e della sua grazia. Non c'è protesi onnipossente dell'occhio umano, microscopio o telescopio elettronico che sia, che possa fare a meno di un'anima contemplativa. Non è stata la sua assenza a generare la trasmutazione estetica più tragica della nostra storia? Fattosi angelo decaduto dell'increazione devastante, l'uomo occidentale ha immerso la sua intelligenza luciferina nell'utero materno della materia vivente senza stupirsene più religiosamente. Come un palombaro cieco, non ha saputo gioire dei tesori che ha portato alla luce. E quasi sempre si è limitato a dragare il fondo dell'abisso unicamente per cavarne i più terribili strumenti d'onnipotenza.
In Martani, consapevole di questo sperpero inaudito di bellezza, il pittore, trepidando come un ragazzo dinanzi a un ininterrotto big bang della vita, senza requie, disarma l'onnivora e frettolosa curiosità del ricercatore; e lo obbliga a trasalire, a percepire in ogni infinitesimale mutazione di forma l'avvento di un'altra genesi latente. Di continuo egli scopre così che tutti i colori ci dormono sotto la pelle: la corda rossa del sangue, il bianco latteo nelle coppe dei seni, l'atra bile verdastra. Ed essi non possono essere portati alla luce senza ferire, o soffrire, o donar tenerezza. E troppo c'è da vedere, troppo c'è da amare in questo mare incontenibile: dentro e fuori di noi!
Come nella primaverile "Passeggiata" di Chagall, egli vorrebbe portarsi a spasso per mano una natura-fidanzata che vola al suo fianco e lascia trapelare qualcuno dei suoi imprevedibili umori. Avventurarsi nel mistero della sua seduzione è stato per Martani un seguitare a guidare controvento: l'ignoto deve cessar di procurare sgomento o indifferenza. Può ritornare invece a esserci confidente e ad arricchirci, finalmente, di un neo-umanesimo che risacralizzi la nostra visione del mondo e la coscienza che di esso ci rimane.
Ecco perché la sostanza di queste scoperte di Martani non è mai stata illustrativa o aneddotica: difficilmente essa ha potuto esaurirsi all'interno di un'opera sola. L'incontenibile suggestione offerta da ogni cellula di memoria può essere scandagliata soltanto ciclicamente, attingendo dalle risorse di uno stesso filone emotivo, finché seguita a prender forma, a palpitare, e a darsi la carne d'un colore. Soprattutto in quest'ultima fase della ricerca in cui Martani è passato, quasi inavvertitamente a inseguire il fluido ramificarsi di ogni eco dei sensi già nei labirinti dell'inconscio. La traiettoria del suo sguardo si è così rovesciata! Rivolta all'interno di sé, il centro mobile del suo bersaglio è diventato la lava incandescente e cangiante d'ogni ricordo risognato. Ora la sua pittura vi attinge ininterrottamente. E sembra aver fatto pienamente suo quel credo poetico di Reverdy secondo il quale la vita dell'artista è sempre un sogno perpetuo: sogno di realtà già vissuta e perennemente riplasmata. Sì, il suo sogno è un'ipotesi di vita, come l'ipotesi del ricercatore è un sogno scientifico.
E anche qui Martani va al di là di un esercizio astratto-gestuale, volutamente liberatorio, né mai ripiega verso una pura e semplice effusione di stati d'animo. Si ostina invece a scremarne lucidamente l'essenza pittorica. Le trenta opere di questa mostra s'organizzano pertanto come una rigorosa partitura sinfonica, unitariamente concepita, ma sviluppata per accumulo di sorprese, eppure roteante attorno a un unico tema: il paesaggio della memoria profonda, còlto nel suo punto critico fra genesi e dissolvenza, con un susseguirsi di variazioni che esplorano la sua infinitezza. Il pretesto per questo flusso di vedute intime, o ancor meglio di emozioni agglutinate, è offerto a Martani da più viaggi compiuti nei mesi estivi nei paesi scandinavi oltre il Circolo Polare Artico. Egli era attirato dall'immagine di una natura ancora mestosamente sublime: «di volto tra bello e terribile», per dirla leopardianamente. Cercava l'idea di una luce non dissimile da questa che ci rispecchia nella nostra corsa lungo il dorso dell'Appennino d'inverno: immobile e probabilmente eterna. Una luce senz'ombra che non sprigioni più da un astro in fuga, ma dal suolo: interna a ogni forma che diviene, partorita dai suoi stessi colori. La luce uniforme e distesa del "Sole di Mezzanotte".
E la sterminata solitudine artica ben poco differisce dal deserto della memoria, giù nelle zone meno battute della coscienza. Queste trenta opere si snodano, una dopo l'altra, come il fedele libro di bordo della sua traversata. E in ognuna delle sue tappe lo spazio si reinventa, torna vergine, ignoto e inquietante: frutto di un contrasto ritmico fra altezza e profondità; fra queste masse di forme lievitanti e agitate da un medesimo impulso di esistere e questo "continuum" di un cielo così rarefatto nella sua algida, metafisica, (forse mistica?) inconsistenza. E anche qui è lo stesso adamantino celeste dominante: il colore del vuoto! Lo stesso sguardo sfuggente della libertà che ci attira o ci respinge, ma che mai cessa di frugarci dentro. Viene alla mente il disperarsi di Mallarmé: «Je suis hanté! L'Azur! L'Azur! L'Azur! L'Azur!». Sotto la sua invasione la linea dell'orizzonte si spezza o si aggroviglia; si inarca come ripide scogliere o come vele spalancate, o si inabissa di colpo in una gola del mare senza fondo.
Sotto l'olimpico enigma della sua trasparenza tutto ciò che esiste non smette di darsi pace: deve espandersi in quel vuoto e occuparne quanto più può. Come pane o latte anche i ricordi delle cose fermentano! Si aggregano come ectoplasmi della vita vissuta, ramificano accordandosi in parvenze inusitate. Si scelgono una veste dai timbri contrastivi e fortissimi: blu notturni che modellano le masse inquiete; rossi che sprizzano come ferite, o bianchi lattati di giglio non ancora profanato. Cantano o gridano! O invocano l'impassibile silenzio di questo cielo di zaffiro. Sono questi i "personaggi" avvistati da Martani durante il suo viaggio verso la luce di Mezzanotte? ... Le libere presenze accampate nei porti; distese lungo il sonno delle marine deserte; smarrite fra le torri dei nuovi opifici; o sprofondate fra le montagne dei fiordi? .. Eccola lì, tutta la vita del pianeta che si gonfia, si sfrangia o si spezza nello sforzo di sollevarsi da terra e di specchiarsi nell'Assoluto. E di sapere chi è! ... Ma ogni scena, ognuna di queste variazioni, sebbene si presenti così concitata e febbrile, è scandita da una prospettiva che resta ermeticamente identica. E ogni tela è spartita in due campi contrapposti, della stessa misura: basso e alto; pieno e vuoto; vita e silenzio. E il binomio non si scinde; la cerniera del mistero si aggroviglia, ma non si apre.
Così Martani restituisce a ogni momento di questa corsa, verso il Polo o altrove, il sigillo inviolato della sua segretezza: seguitando a guidare controvento, lungo questo nastro di asfalto che ci solleva, sospesi fra terra e cielo.
Pietrasanta, 24 febbraio 1994
GIUSEPPE CORDONI
Critica
Biografia
Francesco Martani nasce a Mantova nel 1931. Trascorre l'infanzia a Mirasole Po e fraquenta la scuola media San Benedetto Po. Copia i classici e dipinge paesaggi e figure del mondo rurale. Dal 1948 al 1952 frequenta a Mantova il liceo e la scuola di disegno del professor Tegon. Nell'autunno del 1952 si iscrive alla facoltà di medicina e chirurgia dell' Università di Bologna. Non abbandona mai però la tavolozza: sono di questi anni tanti paesaggi, i ritratti di contadini e nature morte. Nel periodo universitario dipinge molti scorci della città che diventerà sua per adozione. Conseguita la laurea, per scopi scientifici ed artistici fa lunghi soggiorni a Ginevra, a Parigi e negli Stati Uniti (1958); in questo periodo nascono le prime opere informali, che ben si differenziano dal precedente espressionismo naturalistico. Aderisce poi spontaneamente ai suggerimenti dell'informale internazionale. Vive e lavora a Bologna, ma dipinge in qualsiasi paese del mondo venga a trovarsi.